Dopo aver visto I Ritorni di Achille Pignatelli (2019) lisciarsi le penne, compiere un balzo e spiccare il volo, rasserenati, facciamo ritorno al nido editoriale della Homo Scrivens.
Ma il luogo ci appare diverso: tra mille vapori sentiamo penetrare un’aria fredda e malsana, a cui si mescola uno strano mugolio di voci incomprensibili, e poco distante, un gocciolio sinistro. Qualcosa allora prende forma nell’ombra: è Il sorpasso dell’irrealtà, nuova creatura letteraria di Anemone Ledger.
Sfogliando il libro, a poche pagine dall’incipit, prendiamo vertiginosamente a sprofondare: s’innesca così una discesa nella paura, una catabasi scandita da alcuni sussulti, nove in totale, come i mesi trascorsi nel grembo materno, o come i gironi danteschi. Tanti sono gli stralci – guai a chiamarli racconti, ammonisce l’autrice – che compongono il nostro viaggio.
Ogni stralcio è un tassello del mosaico sognato da Anemone, un frammento d’irrealtà, una squama del suo incubo personale. Nel flusso di storie si agitano cose innominabili, presenze confuse e ambigue, che vediamo vorticare intorno alla scrittrice, o meglio, alla sua versione infantile, rannicchiata sotto le lenzuola, dove tenta di tenere a bada l’oscurità. E l’Anemone adulta, esibendo le ferite dello scontro, da tempo ricucite con l’inchiostro, c’invita a sedere tra le pieghe dei suoi minuscoli personaggi, che siano vittime o carnefici, tutti spauriti, tutti inermi, tutti Anemone.
L’irrealtà non è un binario, ma un treno in corsa da cui siamo investiti.
È il nulla montaliano che si spalanca alle nostre spalle, e che scorgiamo con la coda dell’occhio, mentre la folla circostante procede in balia dell’automatismo; noi soli lo percepiamo, e quando succede, è ormai troppo tardi: stavolta l’irrealtà non scompare, non riapparecchia lo stuolo di “alberi, case, colli per l’inganno consueto”, ma procede spedita fino a sorpassarci.
L’intero scenario assume un nuovo significato, del quale, senza preavviso, anche noi facciamo parte. Basta un semplice gesto – come segarsi il collo da soli – perché la metamorfosi abbia inizio.
In un baleno ci ritroviamo a giustiziare nostro padre, a infornare nostra madre, a divorare i nostri figli e i nostri nipoti. Giunti al nono gradino, diveniamo ferraglia omicida, e la risemantizzazione può dirsi completa: il cerchio si chiude apparentemente dov’era cominciato. Ma la nostra carne, a questo punto, si scopre fatta della stessa sostanza che ci aveva ucciso.
Un carrozzone di anime ci guida lungo il tragitto, e tra le varie figure che ne calcano il palcoscenico, riconosciamo lo spettro di un felino, un camaleonte hoffmanniano, un Saturno in abiti medievali. Sono traghettatori abituati a solcare le profondità dello Stige; sono riflessi del nostro specchio incrinato; e sono anche numi tutelari evocati da vecchi e nuovi maestri.
Rielaborando i contrappassi di Dante, le folli confessioni di Poe, i travagli introspettivi di Kafka, gli straniamenti di Lovecraft e le dettagliate atmosfere di King, Anemone parla con timbro maturo, ricco di audacia e d’immaginazione. Nella sua prosa risuona la voce vibrante dell’irrealtà: neanche il tempo di ascoltarla, che già ci ha superato.
Così, raggiunto il centro della spirale, a noi lettori tocca aver fede, abbracciare l’inferno di Anemone e strisciare dall’altra parte, ovunque essa conduca.
Emanuele Arciprete