Francesco Paolo Tosti: Il Novecento e le arti

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Il passaggio di secolo, con tutto quanto in Europa andava annunciandosi, non passò inosservato ad un intelletto sensibile come Tosti.
L’ambiente londinese, seppure piuttosto isolato dalla temperie culturale che si sviluppava principalmente nella Mitteleuropa, non risultava impermeabile ai nuovi linguaggi e alle nuove correnti di pensiero, e questi contatti si realizzavano particolarmente nei ceti sociali cui la produzione tostiana si rivolgeva.
Mentre l’aristocrazia poteva permettersi di rimanere chiusa nei ricchi palazzi, la borghesia emergente, prevalentemente mercantile, aveva la necessità di instaurare relazioni con il mondo intero.
Nei salotti borghesi inglesi, la circolazione di libri, dipinti e anche spartiti di tutta Europa iniziava a far percepire un pensiero che avrebbe pian piano condotto ad elaborare codici e stilemi transnazionali.
Gli ultimi anni del XIX secolo vedono viaggi del Nostro in terra di Francia, e a Nizza si sviluppa un fitto rapporto epistolare con Gabriele D’annunzio e con l’allora di lui compagna Eleonora Duse, attraverso il frequente e gradito tramite di Matilde Serao, amica comune degli altri tre.
Frattanto, il Regno Unito, a somiglianza degli stati europei, si impegnava a rafforzare l’identità nazionale e, in campo musicale, la Corona promulgava un editto per la costituzione di un’Opera Nazionale che affiancasse il Covent Garden, come riportò la Gazzetta Musicale di Milano del 22 giugno 1899.
Lo scenario diveniva propizio per un ritorno alla madre patria del musicista abruzzese.
Allo scoccare del secolo Tosti è un uomo che ha da poco superato la cinquantina, ma il rallentamento della sua produzione non è legato tanto all’avanzare dell’età, quanto ai rapidi mutamenti che l’Europa attraversa.
Il 1901 segna lo stringersi di una relazione artistica assai felice tra il musicista e il poeta Salvatore Di Giacomo, è di quell’anno la prima canzone che reca la firma dei due: Serenata allegra.
Di questo brano, di gran lunga superato in bellezza e celebrità da Marechiaro, lo stesso poeta riferisce dalle colonne di Il Mattino, in un editoriale che prende in esame lo stato di evoluzione della canzone napoletana di inizio XX secolo.
Consapevolmente o meno, quell’articolo rendeva cronaca analitica di un processo che si sarebbe rivelato senza ritorno: la separazione tra la musica “colta” e la canzone popolare.
Fino a quegli anni il “pop” era rappresentato dal melodramma ed erano gli stessi operisti a cimentarsi con arie da camera o con vere e proprie canzoni; Donizetti, Rossini, Bellini, Mercadante e in qualche misura lo stesso Verdi, non avevano disdegnato di dare il proprio contributo al genere musicale più popolare nelle forme brevi, quali le canzoni.
L’avvento del grammofono, il diffondersi del disco, su cui era ben difficile incidere oltre quattro minuti di musica, aprirono un nuovo canale di diffusione della musica, e, come sempre avviene, ciò determinò un riposizionamento formale e stilistico.
Ma l’Italia, ancora per i primi quattro decenni del ’900, non rinuncerà certo al melodramma, e ad esso si dedicheranno giganti quali Puccini, Mascagni, Leoncavallo, Cilea, Giordano, Alfano e altri, ma si faranno largo compositori di maggior consumo, ovvero di canzoni di breve durata, e il solco tra “colto” e “pop” si amplierà senza alcuna possibilità di ricolmarlo.
Il divario di genere musicale si sostanziò diversamente in Europa, anche in relazione alle correnti letterarie e artistiche in generale, che trovarono nelle Alpi un ostacolo talvolta insormontabile.
Orfana di un romanticismo di statura continentale, l’Italia, con le sole eccezioni di Leopardi e Foscolo, si nutrì di melodramma romantico grazie al genio di Verdi, ma figure quali Schiller, Dumas, Goethe, Stendhal, non trovarono corrispondenti nel Bel Paese.
Ecco che quindi, la separazione di cui con felice intuizione parlò Di Giacomo, trovò sul campo musicisti che guardavano al passato o a commedie straniere, e altri che si dedicavano a forme di breve durata, ovvero alle canzoni, musicando testi talora persino banali.
Il fatto stesso che in Europa la produzione di brani vocali su testi poetici “alti” fosse già in voga sul finire del XVIII secolo e che lungo il romanticismo la produzione liederistica si fece copiosa e di grande qualità, basti pensare alle opere di Schubert, Schumann, Brahms e poi Mahler per non dimenticare Faurè, Debussy e Ravel, può dare conto di quanta distanza intercorresse tra la musica vocale da camera italiana e quella d’oltralpe. Quella inglese, proprio grazie a Tosti, subì un impulso di sviluppo, ma in una direzione meno poetica in senso lato.
E’ esemplificativa l’opinione espressa da una qualificata voce come quella di Ildebrando Pizzetti in un saggio critico sulla musica vocale da camera italiana:
«Quando vogliono scrivere delle romanze, scelgono fra tutte le poesie che hanno sott’occhio, le più insulse, le più sciocche o, per averle come essi desiderano, se le fanno scrivere a posta da qualche amico compiacente (…) che la poesia sia bella o brutta, che abbia o no un significato non importa niente: purché si possa adattarvi, senza molta difficoltà, una qualsiasi melodia preformata».
Ma ci piace ricordare le due massime e fulgide eccezioni del repertorio tostiano, che furono rappresentate dalle collaborazioni con Gabriele D’Annunzio e con Salvatore Di Giacomo, poeti dalla statura tale da non cedere alle esigenze di semplificazione di un musicista, anzi, dalla creatività in grado di ispirarne il talento migliore.
I poeti di rango che entrarono in contatto con Tosti, e ai quali dedicheremo un capitolo specifico, furono: Francesco Dall’Ongaro, Lorenzo Stecchetti, Paolo Ferrari, Ada Negri, Giosuè Carducci, Giuseppe Giusti e Antonio Fogazzaro, tra gli italiani.
Tra gli stranieri, invece: Paul Bourget, Algernon C. Swinburne, Victor Hugo, Alfred Demusset, Paul Verlaine, Teophile Gautier e Alfred Tennyson.

Mariapaola Meo

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