Calaf sceglie una donna difficile: la distopica e visuale Turandot

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No, i maxischermi proprio no. Uno schermo al posto di una più ortodossa e convenzionale scenografia può produrre l’orticaria
Il primo pensiero su Turandot in scena al Comunale di Bologna, teatro che pure è stato insignito del Premio Abbiati per la produzione di La Bohème della scorsa stagione, può ricordare quello del più famoso ragioniere del cinema su La Corazzata Potemkin. Ovvero, una…”idea” pazzesca.
Il giudizio è in vero stato inizialmente influenzato dalle troppe Potemkin varate per mascherare carenze di idee e di budget,m questa volta, però, l’allestimento scenico firmato da Fabio Cherstich e AES+F, per la Turandot del Teatro Comunale di Bologna, è stato efficace, intelligente, vivo e funzionale.Alla fine non sorprende il successo per la prima di questa Turandot, prodotta in collaborazione con il Massimo di Palermo e il Badisches Staatstheater Karlsruhe, che è andata in scena Martedì 28 Maggio. Già di per sé la Video Art è piuttosto difficile da accettare come forma artistica, poi messa a servizio di una forma più classica potrebbe creare crepe nella platea. Qualche scricchiolio l’abbiamo anche sentito, ma nulla che abbia potuto farci pensare che il fabbricato operistico architettato da Puccini potesse crollare da un momento all’altro. La verifica statica è stata superata con esito positivo.
Partendo da cosa ha funzionato sicuramente annotiamo la personalità (che può anche non piacere) delle video-scenografie di AES+F. Non sono dei quadri stucchevoli, bensì dei contesti ritmici che si incuneano nella partitura. Di certo la musica pucciniana, fresca e con incidentali orientaleggianti, presta il fianco a lavori ritmici, ma le video-scene ammiccanti di amore libero o il congegno attivato da un essere tentacolare, metà donna metà pianta carnivora, possono lasciare perplessi. Le immagini talvolta sono ingombranti, forse anche troppo, e catturano l’attenzione più di tutto il resto. Ma sarà veramente un male?
Sul palco c’è poco altro, solo degli elementi simbolici. Due tribunette su cui si posiziona il popolo. Una sorta di frigo crio-genico per tenere in vita il vetusto Altoum, imperatore della Cina, che sembra non poter morire prima di aver consegnato il regno in buone mani (e non in quelle sciagurate della figlia Turandot).  Sembra quasi di rivedere la croce di una contemporanea regina d’Inghilterra a caso in salsa cinese. Tre consiglieri vestiti di rosso cardinalizio e un Calaf camouflage manco fosse Joe Rambo. Cioè, vuoi vedere che il problema è proprio la Video-Art? Non scherziamo. Anzi, il lavoro del collettivo artistico è stato così ficcante da coprire lo sciatto lavoro attoriale fatto sui personaggi.
Per il resto, il messaggio di denuncia contro le violenze, non è così forte nemmeno nell’opera stessa. Tanto che il finale postumo (musicato dopo la morte del compositore da Franco Alfano), quello della conversione di Turandot, è famoso per la sua inconsistenza. Credo che il pubblico, dalla prima del 1926, non abbia mai veramente capito perché Calaf si sia incaponito per una bisbetica, viziata e (forse) frigida come Turandot. Non lo capiamo nemmeno a Bologna, tanto più che la Liù di Mariangela Sicilia ci ha incantato per bellezza e bravura.  Noi avremmo accettato i soldi offerti da Ping, Pong e Pang all’inizio del terzo atto per fuggire con la mite e passionale serva, lasciando a qualche altro sventurato il fatal corteggiamento.
Ma veniamo alle note, quelle suonate e cantate. Non solo la Sicilia è un soprano maturo che impone la sua voce, tanto che ce ne innamoriamo in “Perché un dì, nella reggia, m’hai sorriso” e in “Tanto amore, segreto”, ma è anche l’unica che ha una verve attoriale più consapevole.
Di certo più consapevole di una monolitica Hui He che interpreta bene la parte vocale di Turandot senza mai entrare nel personaggio. Meno male che ci sono le video-scene.
Di Gregory Kunde, il Calaf bolognese, si è apprezzata la linea di canto. E’ un tenore elegante, che emette acuti presenti e vigorosi ma mai aspri e virulenti. Il suo “Nessun Dorma” è un diamante di indiscutibile che saetta di scintille nel “Vincerò” finale. Da solo vale il prezzo del biglietto.
Il suo canto gli fa perdonare sia di non capire nulla in fatto di donne (anche se qui è costretto dal libretto a scegliere Turandot), sia di muoversi sulla scena in modo un po’ goffo (ma sfido chiunque a sentirsi a proprio agio con un abbigliamento del genere).
Bravi tutti gli altri. Da Bruno Lazzaretti nei panni di Altoum, al Timur di In-Sung Sim fino a Nicolò Ceriani nei panni del Mandarino.  Buona la resa (più per l’intenzione scenica che per il canto) dei tre ministri: Vincenzo Taormina (una spanna sopra gli altri due in tutto), Francesco Marsiglia e Cristiano Olivieri.
Questa Turandot conferma la buona stagione del massimo felsineo, ben al di sopra di quella precedete. La Video-Art, sebbene a tratti un po’ esuberante, funziona e i cantanti sono di primissimo livello.
Veramente ottimo il lavoro dell’orchestra diretta da Valerio Galli, pucciniano convinto. E’ una delle note più positive della serata.
Ci resta solo un grande dubbio, ovvero se il matrimonio tra Calaf e l’iraconda Turandot sia stato felice. Ma questa è una storia che nessuno ha avuto il coraggio di raccontarci. In fondo, chi lascia la via vecchia per la nuova…. Liù, dolce mia fanciulla.

 Ciro Scannapieco

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