Il mondo di Game of Thrones torna ad accoglierci, come promesso, per un ultimo viaggio. Ma già dalla sigla di apertura, ci accorgiamo che qualcosa è cambiato. Stavolta la cartografia meccanica di Westeros va assemblandosi con maggiore profusione di dettagli, e la consueta panoramica a volo d’uccello non è la sola prospettiva messa a disposizione dello spettatore: gli scenari si arricchiscono invece di un’inedita profondità che schiude gli ambienti interni, altrimenti nascosti, di castelli ed edifici. L’idea ha il suo fascino. Come punti chiave della mappa, individuiamo la Barriera, orribilmente sbrecciata dal fuoco corrotto di Viserion; Ultimo Focolare (in inglese Last Hearth), dimora degli Umber; Grande Inverno (Winterfell) con le sue venerabili cripte; e Approdo del Re (King’s Landing), capitale dei Sette Regni e sede del Trono di Spade. Pare tuttavia che la mappa debba rinnovarsi ad ogni episodio, a seconda del luogo in cui si svolgeranno gli eventi narrati.
Fulcro della puntata è dunque la corte innevata di Grande Inverno, teatro d’incontri, rincontri e colloqui tra quasi tutti i personaggi. In effetti abbiamo a che fare con un episodio di sostanziale immobilità, dal minutaggio moderato (appena cinquantatré minuti), nel quale l’azione e la trama procedono molto poco. La cosa ci lascia alquanto interdetti: se la stagione finale conta sei episodi, anziché i soliti dieci, non capiamo come sia possibile adottare un ritmo ancora così rilassato.
In compenso, una nota di apprezzamento va rivolta alla capacità di aprire uno squarcio tangibile sulla vita del Nord e sulle attività contadine e militari che, con rinnovato fermento, ruotano intorno a Grande Inverno: stalle, ovili, accampamenti, mura, forge e officine, per tutto il corso della puntata, trasmettono in modo minuzioso l’animarsi febbrile dello scenario.
A Grande Inverno, Jon ha l’opportunità di riabbracciare sia Bran che Arya, colmando una distanza durata sette stagioni. Il riunirsi con la sorellina, ormai cresciuta, della cui vocazione omicida Jon è assolutamente ignaro, desta un piacevole effetto di nostalgia, e ci mostra come l’amore fraterno, nonostante il passare degli anni, unisca ancora in modo sincero i due protagonisti. Insieme alla famiglia, Jon ritrova il caro Samwell, col quale si era salutato prima che l’amico s’imbarcasse per la Cittadella.
Arya, a sua volta, incrocia il Mastino e Gendry. Al primo non risparmia acide frecciatine, che il guerriero sfregiato ricambia con la solita asprezza, venata di una nascosta ammirazione; al secondo riserva l’affettuosa ironia che connota da sempre la loro amicizia.
Anche Sansa ritrova qualcuno, ed è Tyrion, in uno scambio di battute da cui emerge la nuova maturità di lei, e la malinconica perplessità di lui. Lo stesso Jon le si presenta declassato a vassallo fedele di Daenerys, e non più Re del Nord, come vorrebbero molti dei suoi alfieri, dettaglio che lei non manca di rinfacciare al fratello. Sansa è ormai divenuta una vera padrona di casa, capace di ragionare con lucidità e realismo, sia su faccende pratiche, legate ad esempio alle provviste del castello, sia su questioni belliche e politiche. Inevitabile che scoppi una certa rivalità nei confronti di Daenerys, donna parimenti caparbia e non troppo incline al compromesso.
Uno schema analogo si verifica ad Approdo del Re, dove Cersei accoglie la flotta di Euron Greyjoy, di ritorno dal Continente Orientale. Il pirata ha infatti provveduto ad assoldare i mercenari della Compagnia Dorata per conto della corona: incarico che Euron ottiene di farsi ricompensare con grande generosità dalla regina, la quale, non troppo convinta, gli si concede. Nel frattempo, Yara Greyjoy, prigioniera a bordo di una nave dello zio, viene provvidenzialmente liberata dal fratello Theon, riscopertosi uomo e guerriero. Anche lui decide però di partire alla volta di Grande Inverno, nella speranza di redimersi combattendo per gli Stark.
E lo schema si ripete persino un istante prima della conclusione, quando cogliamo uno scambio di sguardi a cui non ci saremmo mai aspettati di assistere, ma che delinea anch’esso un ritorno simbolico. Giunto al castello di Grande Inverno, Jaime smonta da cavallo e dà un’occhiata intorno. Subito lo coglie un grande stupore: dall’altro lato del cortile siede Bran, immerso in un ambiguo silenzio che tanto può esprimere distacco quanto ironica superiorità. L’incontro, con un chiaro movimento circolare, si riallaccia alle origini di Game of Thrones e alla scena del primo episodio in cui il giovane Bran, spinto dal gemello Lannister, piombava giù dalla torre. Eppure nessuno dei due personaggi è ormai lo stesso di allora. Se la natura onniveggente di Bran deriva da un evento sovrannaturale, Jaime ha invece compiuto un percorso diverso, non solo sul piano estetico (egli appare invecchiato, monco di una mano, lontano dal biondo fulgido della gioventù), ma soprattutto sul piano psicologico.
Vi è dunque un’attenta completezza, in questa circolarità, che contrassegna l’esaurirsi di un cammino giunto al suo capolinea, e che riemerge attraverso una molteplice serie di rimandi.
La scena d’apertura, molto ben diretta, fornisce un altro esempio. Qui vediamo un ignoto bambino spostarsi rapidamente prima lungo la foresta, poi ai bordi della strada, e quindi sui rami di un albero, da cui osserva l’esercito in marcia. Ebbene, anche nel primo episodio di Game of Thrones avevamo visto Bran arrampicarsi, non ancora storpio, per meglio seguire l’arrivo della carovana reale.
Due le svolte narrative: la cavalcata sul dorso di Rhaegal compiuta da Jon, e la rivelazione a quest’ultimo della sua vera identità. Entrambi gli avvenimenti avrebbero però meritato un maggiore impegno di scrittura.
Al di là della discreta CGI riservata ai draghi, in particolare durante la goffa sequenza di volo, non ci pare convincente che l’invito a cavalcare una delle due creature provenga da Daenerys, la quale peraltro fa sfoggio di un sarcasmo abbastanza inadatto alla straordinarietà della situazione. Jon, come abbiamo scoperto, è un Targaryen, e in quanto tale avrebbe tutto il diritto di tentare da solo l’impresa, spinto da una propria intuizione, o magari guidato da un’innata empatia verso Rhaegal (che, lo ricordiamo, porta il nome del vero padre di Jon). Entrando in gioco Daenerys, invece, sembra quasi che l’evento dipenda unicamente da lei.
Quando poi, al termine della corsa sui draghi, Jon e Daenerys atterrano nei pressi di una cascata cinta dai ghiacci invernali, la loro intimità suona artefatta, troppo convenzionale, nonché curiosamente simile a quella tra Jon e Ygritte: il locus amoenus appena scovato, che Daenerys scherzosamente propone di non abbandonare per mille anni, sembra infatti rievocare la grotta a nord della Barriera, fortuito nido d’amore da cui Ygritte diceva di non voler uscire mai più.
L’inventiva scarseggia altresì durante la confessione fatta da Sam a Jon, con cui il presunto Stark apprende di chiamarsi Aegon Targaryen, figlio di Lyanna Stark e Rhaegar Targaryen. L’ambientazione sotterranea nelle cripte di Grande Inverno è senz’altro calzante, e la scelta d’inquadrare la statua di Lyanna sullo sfondo, nel pieno della rivelazione, a poca distanza dal sepolcro di Ned Stark, s’intona bene al contenuto della scoperta. Ma il dialogo non brilla per originalità, e non riesce a regalarci quel picco emotivo che piuttosto ci si aspetterebbe, pur sollevando dubbi legittimi sul futuro comportamento di Daenerys.
Una certa inquietudine sale infine con la perlustrazione che Tormund, Edd e Beric Dondarrion conducono nel maniero degli Umber, Ultimo Focolare, devastato dall’arrivo degli Estranei (la cui assenza visiva contribuisce però a minare la solidità dell’intero episodio). Il simbolo infuocato apparso sul muro richiama ancora una volta la prima puntata di Game of Thrones, dove gli Estranei tracciavano nella neve un segno identico, altrettanto misterioso e cruento; e per quanto un’occasionale ironia stemperi l’atmosfera, il macabro ritrovamento finale sembra quasi omaggiare l’orrore raccontato da John Carpenter nel film La cosa (1982).
VOTO: 6 ½
Emanuele Arciprete