«Ognuno può facilmente immaginare quanto possano essere state le ingerenze censorie, ma fino a che non le si tocca con mano, non si riesce davvero a capire quali enormi compromessi dovevano accettare i compositori, poeti e letterati. Quello che sembra giusto e necessario fare, spesso non è quello che un compositore può permettersi. E nemmeno potremo capire fino in fondo quanto realmente si modifichi il senso dell’opera cambiando ambientazione ed epoca».
Così il regista Leo Muscato nell’introdurre il suo allestimento di “Un ballo in maschera” in scena al San Carlo di Napoli dal 22 al 28 febbraio. Il capolavoro verdiano è in effetti un caso emblematico in questo senso e a darci misura di quanto enormi dovettero essere questi compromessi riportiamo parte fondamentale del memorandum che Verdi, scrisse per difendersi in tribunale dalle accuse che la direzione del Massimo napoletano gli rivolgeva citandolo in giudizio:
“La Vendetta in Domino si compone di 884 versi: ne sono stati cambiati 297 nell’Adelia, aggiunti molti, tolti moltissimi. Domando inoltre se nel dramma dell’Impresa esiste come nel mio
Il titolo? – No.
Il poeta?- No.
L’epoca?- No.
Località?- No.
Caratteri?- No.
Situazioni?- No.
Il sorteggio?- No.
Festa da ballo?- No.
Un maestro che rispetti l’arte sua e se stesso non poteva né doveva disonorarsi accettando per subbietto d’una musica, scritta sopra ben altro piano, codeste stranezze che manomettono i più ovvii principii della drammatica e vituperano la coscienza dell’artista”.
Ed infatti nel corso del 1858 la censura borbonica intervenne a più riprese sul libretto ed in modo pervasivo: nel gennaio, dopo il 13 gennaio, all’indomani cioè dell’attentato a Napoleone III ad opera di Felice Orsini, nel febbraio; in corrispondenza il titolo stesso fu mutato più volte: in Gustavo III/ Una Vendetta in Domino, in Una Vendetta in Domino, ancora in Adelia degli Adimari. E insieme al titolo i contenuti del lavoro e i suoi aspetti fondamentali furono completamente stravolti.
Ma fu quando i vertici del teatro partenopeo decisero di muoversi autonomamente affidando per le ulteriori modifiche di febbraio l’opera ad un librettista anonimo (forse Domenico Bolognese, l’allora poeta ufficiale del teatro) che Verdi decise di sciogliersi dal contratto e la questione approdò in tribunale.
L’opera composta per Napoli riuscì alla fine ad andare in scena, senza troppe variazioni, il 17 febbraio del 1859, con il titolo oggi noto, al Teatro Apollo di Roma, pur con qualche malcontento degli autori. Somma dovette accettare suo malgrado le disposizioni della censura ma si rifiutò di far pubblicare il libretto col suo nome. Verdi, che intendeva dare uno “schiaffo” al teatro napoletano mettendo in scena l’opera “quasi sulle porte di Napoli e far vedere che anche la censura di Roma ha permesso questo libretto” si dovette però accontentare dei membri del cast che il teatro poteva permettersi, rimanendone alquanto deluso.
Come si concluse la controversia legale? Dopo mesi si giunse ad un accordo: la direzione ritrattò le accuse e in cambio Verdi mise in scena al San Carlo una ripresa del Simon Boccanegra il 30 novembre del ’58.
Continua il regista: «Quando il teatro dell’opera di Malmö in Svezia mi ha commissionato questo spettacolo, ho scoperto che era loro tradizione mettere in scena la versione originale dell’opera che aveva per protagonista Gustavo III di Svezia, un re illuminato, amante delle arti e grande mecenate. La versione con i personaggi originari è stata rappresentata pochissime volte in Italia, diversi anni fa. In realtà, non esiste una versione ufficiale svedese: Verdi non potè pubblicarla. Nel libretto, Stoccolma e Boston sono menzionate solo in didascalia. (…) Ci è sembrato fosse doveroso conservare la distanza temporale voluta da Verdi, che ambienta la sua storia nel 1792 in una corte sfarzosa e divertente».
E fino a qui l’idea della regia pare coerente se non fosse per il fatto che questa ripresa partenopea affidata ad Alessandra De Angelis sembra non averne avuto sufficiente cura ed, in più di una circostanza, i riferimenti alle Americhe e al Conte di Warwick hanno fatto capolino nelle parole degli interpreti e nei sovratitoli. Ma è con il richiamo alla componente fiabesca che una più grande incoerenza si palesa: il “C’era una volta” utilizzato come incipit, sposta naturalmente le vicende narrate in uno spazio immaginario lontano da un tempo e da un luogo fisico determinati. Impossibile a maggior ragione riconoscervi personaggi storici e la presenza dell’elemento fantastico e magico è un raccordo forse assai labile, specialmente se la maga di turno è rappresentata come una ciarlatana.
Opportunamente fa notare Pietrobelli “Anche quest’opera verdiana è costruita attraverso un perfetto dosaggio di simmetrie, di rispondenze e di parallelismi, i quali servono a mettere in evidenza la complessità poliedrica dei personaggi. Ai conflitti interiori altri se ne aggiungono sul piano sociale e politico; ed essi pure hanno una parte non indifferente nell’economia del dramma. E Verdi li coglie sin dalle primissime battute dell’opera, in quel preludio orchestrale dove si alternano i temi caratterizzanti l’amore dei sudditi ed il complottare dei congiurati, entrambi ruotanti attorno all’idea musicale che caratterizza l’amore di Riccardo per Amelia. In quest’opera il gioco dei contrasti, del leggero e del serio, del diurno e del notturno, dell’amicizia che si trasforma in gelosia, della fedeltà coniugale che combatte con l’amore, della lealtà verso il vassallo più fedele che deve combattere con un più imperioso sentimento d’amore, tutto questo trova la sua icastica e suprema raffigurazione. Ed in questa prospettiva riusciamo finalmente a comprendere che cosa Verdi veramente intendesse quando scriveva a Somma, chiedendo “soggetti nuovi, grandi, belli, arditi; e arditi all’estremo!” aggiungendo che avrebbe rifiutato argomenti come quelli del Nabucco e de I due Foscari, proprio perché senza varietà, cioè privi di contrasti interni”.
La recita di venerdì 22 febbraio delle ore 20 ha visto la prova equilibrata dell’orchestra del Massimo napoletano affidata alla guida esperta ed attenta del direttore abruzzese Donato Renzetti. Roberto Aronica ha prestato corpo di voce robusta e solida interpretazione al protagonista Gustavo III, giovane sovrano magnanimo e spensierato, amante del travestimento e dello scherzo. La performance del celeberrimo tenore, che ha ben fatto nella Sortita dell’Introduzione “La rivedrà nell’estasi” non è stata tuttavia ineccepibile, soprattutto la sua ultima Romanza “Ma se m’è forza perderti” ha sofferto un po’ di pesantezza e di suoni non sempre brillanti. Spiegamento di ampie, semplici frasi melodiche, nello stile della cosiddetta tradizione italiana, nel duetto con il soprano “O qual soave brivido”. Efficace nel quintetto del finale primo “E’ scherzo od è follia”, momento, il più alto, del suo spensierato travestimento nella grotta di Ulrica. Decisamente convincente Luca Salsi nei panni di Carlo, duca di Ankastrom, dapprima tutto teso alla difesa del suo signore contro i congiurati e poi, dal momento della presunzione di tradimento, alla vendetta per l’oltraggio subito. Carisma, proiezione del suono e precisa tecnica vocale, sono state le sue carte vincenti.
Superba ed incontestabile la Amelia portata in scena dal soprano campano Carmen Giannattasio, omogeneità e rotondità di suono dal grave all’acuto, perfezione di fraseggio, pregevole interpretazione hanno caratterizzato il suo personaggio costantemente tormentato tra il sempre più forte sentimento d’amore per Gustavo e ed il rimorso di tradire il marito. Ulrica, qui rappresentata non come donna di colore, è stata interpretata dal mezzosoprano Agostina Smimmero che le ha fornito ottimi volumi, colore brunito e buona recitazione. I biografi del sovrano svedese Gustavo III sostengono che il re fosse gay: l’intimo rapporto con il paggio Oscar è l’unico lieve accenno rimasto nel libretto. Sicuramente il personaggio en travesti incarna la leggerezza connaturata al suo Sire, di ispirazione francese, tanto sul piano formale che su quello del linguaggio, i due brani in due strofe, a lui interamente affidati: la ballata “Volta la tèrrea” e la Canzone “Saper vorreste”, giocati su frasi melodiche brevi in sé concluse, sulla rapida successione di ampi intervalli della linea vocale, di note staccate e di svolazzi brillanti. Anna Maria Sarra ha reso giustizia al fanciullo cimentandosi con duttilità e agilità e spiritosa interpretazione.
Horn e Ribbïng, corifei, feudatari inquieti che mal sopportano la signoria del principe, hanno avuto rispettivamente la voce dell’ottimo Laurence Meikle e di Cristian Saitta.
Più che adeguati Nicola Ebau nelle vesti del marinaio Christian e Lorenzo Izzo in quelle di un servo di Amelia. Imbarazzante la prova di Gianluca Sorrentino, un giudice, calante e vocalmente spoggiato.
Belle, nel segno della tradizione le scene di Federica Parolini, culminanti verso il finale in un inaspettato cambio scena a mezzo di piattaforma rotante. Dallo studio privatissimo del sovrano illuminato nel suo momento di più intimo lirismo e sacrificio ci si ritrova improvvisamente catapultati nel bel mezzo della chiassosa festa da ballo nel grande salone illuminato e tutto specchi, dove di lì a poco si consumerà la tragedia. Evocativi i costumi di Silvia Aymonimo; luci dal taglio quasi espressionista quelle di Alessandro Verazzi. Ottima performance del coro diretto da Gea Garatti Ansini.
Mariapaola Meo