«La Ferocia»: faida familiare di “Vico Quarto Mazzini”

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Michele Altamura e Gabriele Paolocà, in arte “Vico Quarto Mazzini”, premio Hystrio 2021 come migliore compagnia emergente, curano la regia per il teatro del romanzo “La ferocia”  di Nicola Lagioia, vincitore del  Premio Strega nel 2015. Lo spettacolo, presentato al RomaEuropaFestival, è  ora in scena, fino a venerdì 4 ottobre, al Teatro Argentina di Roma.
“La ferocia” è una storia di faida familiare, che affonda le sue radici in una tradizione  che parte dalle tragedie greche, rinnovata in un contesto storico attuale, restituendo con i temi del dissidio, della lotta per il potere, del rancore, anche una vena di esplicita denuncia.
Nella trasposizione teatrale di Linda Dalisi mancano ovviamente,  per economia di scena, le lunghe descrizioni del paesaggio pugliese del romanzo, apparentemente intatto, ma di fatto contaminato da un sottosuolo marcio e avvelenato, territorio  fragile e abusato come quello del Gargano, centro storico della narrazione. Tuttavia una preoccupazione struggente e una consapevolezza di colposa responsabilità emerge dai dialoghi degli attori, dialoghi che mettono in evidenza la natura predatoria dei comportamenti imprenditoriali e politici responsabili del disastro.
Vittorio Salvemini, un bravissimo Leonardo Capuano, è un costruttore pugliese ricchissimo, ormai in età avanzata. Un uomo che si è fatto da solo, disposto a tutto pur di fare affari.
La scena, elaborata da Daniele Spanò, è  costituita da una villa moderna, impersonale, emblema della ricchezza accumulata con affari spregiudicati: una casa con ampie vetrate che, più di far entrare la luce, consentono al nostro sguardo di scrutare il vuoto emotivo e la freddezza dei personaggi coinvolti. In una scelta così impersonale, senza alcun riferimento all’architettura pugliese o del meridione, forse la regia ha voluto rimarcare che il sud non è l’eccezione ma la regola di un sistema affaristico che influenza tutto il nostro paese.
L’effetto è  di gelo e le canne, con i loro pennacchi oscillanti, che pian piano invadono lo spazio, diventano emblema di quella  “malapianta” di un certo affarismo che penetra e invade ogni ambiente della nostra società.
Il fatto di cronaca , che si innesca come una crepa in questo sistema, è la morte di Clara, bellissima rampolla di Casa Salvemini, avvenuta in circostanze misteriose, su cui lo stesso padre fa stendere un velo di omertà per evitare di mettere in luce i suoi torbidi affari. Clara è morta in un’orgia sadica in cui sono coinvolti gli uomini di potere che Vittorio Salvemini ha corrotto, il Presidente della Corte di Appello del Tribunale di Bari,  il direttore generale dell’Università e l’ex Sottosegretario alla Giustizia. Al centro degli interessi una speculazione edilizia, la costruzione di ville a Porto Allegro, su un suolo dove sono stati smaltiti illegalmente rifiuti tossici, suolo che il costruttore è riuscito a non far analizzare, corrompendo i tecnici e i funzionari responsabili dei controlli.
E così, pur conoscendo esattamente le circostanze in cui è morta la figlia, Salvemini corromperà anche il medico legale per cambiare il referto della morte e far dichiarare il suicidio. Clara in fondo era nota per la sua autodistruttività, per essere una  cocainomane, e dunque diventa il sostegno perfetto per la feroce menzogna del padre.
Il corpo di Clara diventa alibi e, in quanto fantasia presente a tutti, è destinatario di rabbia, dolore , folle voracità, elemento femminile che, sacrificato, tiene in piede il potere patriarcale. La stessa moglie di Salvemini, Annamaria, unico tragico personaggio femminile, cui dà forza l’interpretazione di Francesca Mazza, che impassibile legge i biglietti di condoglianze per la morte della figlia, pieni di insulti, dà voce ad una durezza disumana. Quella durezza che le ha  consentito di sopravvivere alle angherie del marito, ai suoi tradimenti, cinicamente legata a “la roba” per cui ha sacrificato l’intera esistenza, anche l’amore per la figlia.
La falla sarà la fragilità di Michele, figlio di Salvemini avuto fuori dal matrimonio, ma intimamente legato alla sorellastra Clara. Michele rientra da Roma dove ha scelto di vivere lontano dalla famiglia e cerca di indagare sulla morte della sorella. All’inizio non capisce o finge di non capire, perfettamente consapevole del precipizio morale che si presenta ai suoi occhi, poi trova la forza di denunciare ad un giornalista locale il progetto criminoso, in una sorta di nemesi per le colpe del padre e per la sua stessa colpa di aver abbandonato Clara. La sua confessione trascinerà in quel precipizio tutti i personaggi coinvolti e così la luce si spegnerà definitivamente sulle vicende della famiglia Salvemini.
Unico in scena resterà il  cronista,  voce narrante della storia, collocato in un lato del palco in un piccolo studiolo con un microfono e le cuffie, un omaggio della regia a Lagioia conduttore radiofonico.
La famiglia diventa ne “ La ferocia” il primo nucleo, quello più  potente e vivo, di un male che pervade la società, non più valore da propagandare, ma sottosuolo avvelenato dei nostri tempi.

 

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