Si è concluso con buon successo alla Sala Futura il Progetto Sciascia del Teatro Stabile di Catania, fortemente voluto dal Direttore Artistico Luca De Fusco e articolatosi in quattro appuntamenti tutti incentrati su Il mare colore del vino, la seconda raccolta di racconti scritti tra il 1959 e il 1972 e pubblicati da Sciascia nel 1973, dopo Gli zii di Sicilia. Racconti che affrontano con la ben nota leggerezza di stile, ironia, malinconia e passione civile i temi più vari, dal folklore al giallo al pettegolezzo di paese, all’emigrazione, e che secondo lo stesso Sciascia costituiscono “una sorta di sommario della mia attività fino ad ora “, un compendio dei suoi modi e temi narrativi. A partire dal gennaio 2023 la Sala Futura – palcoscenico al quale il Teatro Stabile ha riservato le produzioni dedicate alla musica, alla letteratura, alla contemporaneità – ha ospitato Gioco di società, La rimozione, Il mare colore del vino, per concludere dall’11 al 14 maggio 2023 con Un caso di coscienza.
“Il viaggio da Roma a Maddà, su un treno che partendo da Roma alle otto del mattino arrivava a Maddà sette minuti dopo la mezzanotte, l’avvocato Maccagnino sistematicamente lo impiegava leggendo un quotidiano, tre rotocalchi e un romanzo poliziesco..“ ma a causa del ritardo del treno, per ingannare il tempo e cercando giornali dimenticati sui sedili, l’avvocato si imbatte nel settimanale “Voi”, e in una lettera nella quale una lettrice di Maddà scrive alla rubrica di Padre Lucchesini rivelando un adulterio commesso qualche anno prima, chiedendo consiglio se confessarlo o no al marito. Si scatena la spasmodica ricerca del “cornuto” in famiglia, in tribunale, al circolo…
Il regista Francesco Randazzo, che cura anche la scena, con i costumi di Riccardo Cappello e luci di Gaetano La Mela, ravvisa chiarissima l’ispirazione nel pirandelliano Berretto a sonagli, che induce Sciascia, come riporta nelle note di regia, “ad un efficacissimo, parodistico gioco in punta di penna con il quale ci mostra la giostra del dietro le quinte paesano, della chiacchiera e del sospetto, della commedia intrisa nell’irrisione, della mascolinità che diventa, con una girandola di pettegolezzi virali, una “qualità” difettosissima di tutti i pupi maschi, recitanti le loro parti su una scacchiera costruita su tutti gli antichi vizi, le spacchioserie e le idiosincrasie della provincia siciliana. Le vite dei personaggi e la vicenda quasi poliziesca assumono tratti surreali, persino inquietanti, ridicoli, picareschi, eccessivi. Il sorriso tirato e le risatacce meschine colpiscono tutti” .
A quest’ispirazione pirandelliana è dovuta la scelta di affidare l‘incipit dello spettacolo alla voce fuori campo dell’indimenticabile Turi Ferro nel celebre monologo di Ciampa, tratto appunto dal Berretto a sonagli : “Pupi siamo, caro signor Fifì! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tutti. Dovrebbe bastare, santo Dio, esser nati pupi così per volontà divina. Nossignori! Ognuno poi si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede d’essere. E allora cominciano le liti! Perché ogni pupo, signora mia, vuole portato il suo rispetto, non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentar fuori. A quattr’occhi, non è contento nessuno della sua parte: ognuno, ponendosi davanti il proprio pupo, gli tirerebbe magari uno sputo in faccia. Ma dagli altri, no; dagli altri lo vuole rispettato….”
Dopo di ciò, prende la parola Leonardo Sciascia in persona, nel senso che la messa in scena presenta letteralmente il testo del racconto senza adattamento teatrale: idea semplice ma non banale, e che non fa che dimostrare la potenza della narrazione sciasciana , che fornisce mille spunti teatrali alla regia e agli eccellenti interpreti Filippo Brazzaventre, Marta Limoli, Franco Mirabella, tutti provenienti dalla blasonata Scuola del Teatro Stabile e forniti ciascuno di notevoli curriculum; in uno spazio scenico zeppo di oggetti a suggerire l’immagine di un’attrezzeria teatrale, o di una soffitta, lo spettacolo procede scorrevole e brillante grazie ai continui cambi di toni e di umori e di caratterizzazioni a commento della narrazione, a una girandola di personaggi che nelle trasformazioni e travestimenti dei tre artisti richiamano la metafora dei pupi, a piroette e movimenti di danza che trasformano il loro impegno quasi in una prestazione atletica, alle musiche, le più varie, scelte a sottolineare i vari momenti, tutte utilizzate in chiave ironica o parodistica, da Chattanooga chou chou per il treno, alla toccata e fuga di Bach per la scoperta della notizia sulla rivista , all’accenno di Traviata da parte di Marta Limoli nel racconto della moglie adultera , alla sinfonia da La Forza del destino, per non parlare di canzoni in voga negli anni ’60, contemporanee quindi alla stesura del racconto, come Pietre di Antoine, o significativamente Nessuno mi può giudicare (La verità mi fa male, lo so). Uno spettacolo molto divertente ma giammai superficiale, e che per la sua estrema fruibilità potrebbe essere ben utilizzato nelle scuole per approfondimenti letterari e teatrali.
Nessuno scoprirà chi sia l’adultera, tranne il marito, che già sapeva, e che trova il coraggio di chiedere alla moglie perchè abbia scritto al giornale. Nell’apprendere che il marito ha sempre saputo, la donna scoppia in lacrime.“…Lui cominciò a dirle del suo amore e della sua pena (…) E quando le cose che diceva arrivarono al pianto, alle lacrime , si avvicinò a sollevarla, a tirarla a sé . Ma appena toccata lei si alzò di colpo. Rideva negli occhi e nella bocca di un riso maligno, freddo, immobile. Tese verso di lui la mano a pugno chiuso, ne fece scattare, come per cavargli gli occhi, l’indice e il mignolo; e dalla bocca le uscì isterico e lacerato il verso del caprone. – Beeeee… Beeeee…”. Ecco lo sberleffo finale che, come sottolinea Randazzo, ” con comico cinismo chiude il cerchio narrativo” citando apertamente il finale del Berretto a Sonagli. Sberleffo non a caso affidato al personaggio femminile: le donne , sempre citando il regista , ” in fondo tengono tutti in pugno, nonostante la scarsa considerazione tipica dell’ottica stereotipata dei maschi, ma che in fin dei conti, sono sempre più schiette e sincere, anche spietatamente, oltre i cliché (che Sciascia usa brillantemente) “. Il finale rappresenta quindi “ lo scioglimento di un mistero banalissimo e tragicomico, come la vita ottusa dal pregiudizio e dalla presunzione, forse anche la nostra, forse no, non più speriamo, forse se riusciamo a riderne siamo salvi, forse. La risata rasposa del grande scrittore siciliano, graffia ancora, con sorprendente maestria e leggerezza”.
Antonella Guida
le foto sono di Antonio Parrinello