Questa rappresentazione de “I vespri Siciliani” ci voleva proprio, quantomeno per placare il brusio dei soliti “criticoni”. Non che non abbiano qualche ragione, per carità.
Il passaggio da un meraviglioso teatro d’opera settecentesco ad un padiglione in zona fiera, seppur approntato ad hoc, non è facile a digerirsi. Mettici anche qualche recita claudicante e la pesante necessità di mettere mano all’acustica di sala, che i primi commenti escatologici non sono tardati ad arrivare.
La buona notizia, confermata dalla recita dello scorso 19 Aprile è che per la fine del mondo si dovrà aspettare.
Anche perché il lavoro sul libretto è molto centrato e gradevole, a patto che si entri nell’idea registica dell’artista palermitana. L’attivismo per immagini di Emma Dante, infatti, di certo non si incanala nel solco della tradizione operistica, senza diventare, però, né fuori luogo, né eccessivo.
In fondo la grandezza propulsiva del melodramma è di saper raccontare l’oggi narrando il passato. La vicenda raccontata non esiste solo nel tempo narrativo, ma si risolve nel presente attraverso gli elementi di contemporaneità che ne caratterizzano la messinscena. Nei vespri, l’attualità si intrude nel complesso rapporto tra oppressi e oppressori. Gli oppressori non sono più i nobili francesi ma mafiosi (e politici) che mortificano il potenziale sviluppo dell’isola. Non è la prima volta che la regista palermitana parla della sua città con cui ha un rapporto odi et amo.
La cifra stilistica è sempre poetica, surreale, graffiante, mai documentaristica. Non è tutto perfetto, ovviamente, ma tra (molti) alti e (pochi) bassi il risultato è convincente.
Forse i gonfaloni con i nomi delle vittime delle stragi di mafia calcano troppo quella retorica della memoria a cui siamo ormai assuefatti. Piacciono, invece, le scelte formalmente “scorrette”, come la danza di Pupi Siciliani durante la Sinfonia Iniziale o gli abiti che si richiudono sui personaggi a mo’ di sacco della spazzatura.
Magari il lavoro fatto sui costumi avrebbe potuto essere più brillante. In questa recita gli oppressori mafiosi vestono tute in acetato, a solleticare quella retorica per immagini che richiama ad un degrado sociale di gomorriana memoria.
Ne sentivamo davvero il bisogno? In definitiva l’idea scorre dall’inizio alla fine. Potrà piacere oppure no, ma la cifra stilistica di Emma Dante arriva chiaramente, peccato per il taglio di alcuni ballabili che sarebbero stati inconciliabili con gli spazi scenici del Comunale Noveau.
Volendo essere pignoli, non convince la scelta del libretto in italiano che mortifica di quel tanto che basta il fraseggio rispetto all’originale in francese “Les vêpres siciliennes”. Ma tant’è, inutile ora volteggiare nel vano valzer dei se.
Anche perché la musica sostiene la rappresentazione egregiamente.
La direzione di Oksana Lyniv è raffinata e sublima il suono dell’orchestra. Tutto è “a posto”. Non servono colpi ad effetto o ammiccamenti dinamici ed espressivi per magnificare l’esecuzione della sinfonia iniziale. T
utto evolve in un elegante e commovente moto degli archi. Poche volte l’abbiamo sentita così.
Buona anche la prova dei cantanti, che schivano (non senza difficoltà) le mille insidie dovute ai tagli. L’Elena di Roberta Mantegna si distingue dalle più consuete interpretazioni sopranili fin troppo frizzanti in alto. Qui, la morbidezza vocale diviene sia punto di forza che nota distintiva, con suadente emissione nella parte centrale del registro che rende il soprano riconoscibile. Non tradisce Franco Vassallo che ammalia per ricchezza timbrica e agilità in alto.
Discrete, invece, le prove dei Tenori, rispettivamente Riccardo Zanellato nei panni di Giovanni da Procida e Stefano Secco in quelli di Arrigo. Quest’ultimo, per dovere di cronaca, alle prese con una parte che non sembra essergli pienamente congeniale. Ottima, come al solito la prova del Coro diretto da Gea Garatti Ansini.
Segnaliamo, tra le altre cose, il netto miglioramento dell’acustica di sala, anche nelle zone più “sfortunate” del nuovo spazio. Non è chiaro cosa sia stato fatto, ma funziona.
In definitiva, quella che è andata in scena è una produzione ottimamente suonata, ben cantata e con una linea registica chiara. Di certo i tagli (al limite della mutilazione) e la scelta della lingua italiana non hanno aiutato a far ergere questa recita tra quelle indimenticabili. Però è piacevole
Ciro Scannapieco
Foto Rocco Casaluci