Partiamo dalla fine, il concerto di Gil Shaham è una chiacchierata intima, uno di quei discorsi a cuore aperto che ti fa tornare a casa pieno di spunti. Non potrebbe essere altrimenti, dato il repertorio che rifugge ogni eccesso. In Bach tutto è giusto, con un equilibrio dal sapore trascendente e una scrittura profetica in cui mettere o togliere elementi dalla partitura sarebbe solo un gesto delittuoso.
Sul palco c’è solo il musicista e il suo violino.
A leggere il programma, ci chiediamo chi gliel’ha fatto fare. Bach nasconde mille insidie, poco si presta a ruffiane smancerie romantiche e – cosa ancor più grave – si porta dietro una nutrita frotta di ultras iperconservatori pronti a criticare ogni scelta. Già li immaginiamo incartapecoriti, immortalati in un dipinto ad olio con un monocolo sugli occhi.
Tra loro, i più ortodossi, iperbolicamente, asseriscono che difronte ad una musica con così alta il musicista può solo rovinare ciò che nasce perfetto. Si sa, il fideista bachiano appartiene ad una specie strana a cui -diciamocelo- non va mai bene nulla. Inviluppati nella ricerca filologica dell’autenticità rifuggono da tutto ciò che ai loro occhi non è autentico e coevo. Come in un paradosso in questa ricerca di originalità scivolano nel baratro di un manierismo superficiale. Lasciamoli lì a rimuginare.
La via di Shaham a Bach, invece, è all’ascolto sincera, matura, colta. Tutto è in ordine, si intuisce il tempo speso nella ricerca che restituisce ogni suono al proprio dominio. È un messaggio musicale interiorizzato quello che ascoltiamo. Il sentire musicale del musicista diventa un tutt’uno con la partitura. Se è coerente nessuno può dirlo con assoluta certezza, essendoci persi le prime esecuzioni del 1720. Di certo, però, sappiamo che la musica suonata presso l’auditorium Manzoni lo scorso 9 Gennaio è materia viva e schietta.
Ma veniamo al concerto. La «Sonata n.2 in La minore BWV 1003», interpreta in modo magistrale, ci ha fatto subito intuire che non sarebbe stato un concerto normale, ma è solo con la seconda partita che siamo stati catapultati in una dimensione percettiva sublimata dalla musica.
La famosissima «Ciaccona» è stata preceduta da un «Giga» lacerante, di notevole potenza espressiva che ha ben introdotto il celebre movimento in cui sciorina gran tecnica senza mai tradire lo spirito della partitura. Che sia ortodosso o no, poco importa.
Quello di Shahm è un Bach nudo di ogni periodizzazione stilistica. Se in qualche tratto si indulge al virtuosismo di matrice moderna, non viene mai meno il pathos e l’emozione.
La velocità di esecuzione potrebbe spiazzare ma tutto è sembrato in ordine, nonostante i tempi siano più sostenuti rispetto ad altre interpretazioni. Il suono, poi, è metallo scintillante e miele caldo allo stesso tempo con un vibrato che accarezza leggero come una brezza marina.
Anche la «Seconda Partita» che chiude il concerto è stata suonata con grande vivacità, eppure questa velocità non è mai sembrata eccessiva, sia per l’esecuzione impeccabile che -come già accennato- per un timbro dal perlage raffinato e unico.
Nel mezzo c’è stata l’opportunità di ascoltare tre brani di recentissima composizione, tra cui spicca «When the Violin» di Reena Esmail, introdotto da una poesia declamata dallo stesso musicista che sembra descrivere in parole tutta la musica suonata (…When the violin can forgive/ Every wound caused by Others/ The heart starts Singing).
Se Bach è l’essenzialità. Il suono del violino di Shaham parla con voce vera. È una lama che priva con un gesto delicato e sottile l’anima dalla sua buccia.
Ciro Scannapieco