La scena, un po’ triste, un po’ romantica, è quella di due vecchi amici che si salutano sulla banchina di una stazione nella nebbia del mattino. Sanno che non si rivedranno per un po’. No, non è il finale di Via col vento. Già c’erano voluti 20 anni, prima che si ritrovassero dopo il loro ultimo incontro, era il Novembre del 2002 ed un bellissimo Lohengrin diretto da Daniele Gatti al comunale riscosse un gran successo. Questa volta è la struttura del teatro ad andare via per un po’ – almeno metaforicamente, vista la stazza ‘immobile’ dell’edificio. Il teatro felsineo, infatti, chiuderà per almeno tre anni i battenti, per permettere degli opportuni lavori di riqualificazione. Dispiace salutarlo ma lo rivedremo più bello e moderno.
Che sia un caso o una scelta, non c’è nulla di più appropriato di questa opera wagneriana, per attribuire alla sala Bibiena un onorevole commiato. Era il 1871, sempre di novembre, quando il genio di Lipsia riuscì a sfondare (musicalmente) le Alpi, proprio con il Lohengrin, prima opera di Wagner mai diretta in Italia. Manco a farlo apposta, ad ospitare l’evento fu il Comunale. Prima di un lungo (speriamo non troppo) viaggio è opportuno riabbracciare gli affetti più cari. Ci sta!
Se fosse stato in vita, Verdi avrebbe rosicato fino a mangiarsi il fegato per questa scelta. Perché non salutare il teatro con La Forza del destino, ad esempio? Si narra che il nostro paladino dell’Unità nazionale fosse un tantino collerico, parrebbe aver addirittura rotto con l’amico Mariani, reo di aver insanamente diretto la prima italiana del Lohengrin. Addirittura! E se non bastasse, le cronache dell’epoca raccontano di un viaggio segreto a Bologna per assistere al lavoro del rivale. Saranno state quattro ore tanto indigeste, che chiosò tra gli appunti con un tranchant “noia” (Commento su libretto di Franco Califano). Se non è rosicare questo!
Perfino Bologna, città rossa, nell’imbarazzo di preferire intimamente l’altro, cioè lo straniero teutonico al beniamino locale, si riscopre improvvisamente democristiana, decidendo di intitolare la piazza prospiciente al teatro a Verdi. Un po’ come dare un colpo alla botte ed uno al cerchio per tener contente moglie e amante. Sforzo tanto coraggioso quanto vano; infatti, i due- Verdi e Wagner- sono ancora lì che si guardano in cagnesco, all’ingresso della sala Bibiena, fissati nel reciproco sdegno dai due bassorilievi modernisti contrapposti ai lati della porta. Alea iacta est, tant’è che a salutare il teatro c’è il cavaliere del cigno. Se non è una scelta questa. L’altro se ne faccia una ragione.
Fatto sta, che lo scorso 13 Novembre al TCBO è andato in scena un bel Lohengrin, con la direzione di Asher Fisch e regia del duo Fanny & Alexander (al secolo Luigi De Angelis e Chiara Lagani). L’idea rappresentativa ha diversi spunti notevoli. Il tema del giudizio è una sorta di leitmotiv registico che accompagna la narrazione per tutti e tre gli atti. Scelta esposta chiaramente nell’ambientazione del primo atto, un tribunale che richiama all’aula di Norimberga dove Elsa è chiamata a difendersi dalle accuse di Telramund. Sullo sfondo una proiezione di una foresta che non solo da profondità alla scena, ma ricorda anche il legame profondo che lega la saga arturiana alla natura. Altri frammenti concettuali sono sparsi sulla scena, senza una valenza esplicita. Come, ad esempio, l’orologio digitale calato dall’alto, che contrappone il tempo sospeso di chi aspetta il giudizio a quello del mondo che continua incessantemente a proseguire. Oppure il simbolo che illumina il pavimento al centro della scena, di enigmatica interpretazione, purtroppo visibile solo da posizioni sopraelevate (praticamente impossibile da percepire dalla platea). Forse non era tanto importante, allora perché c’era?
I temi più umani sono proposti con grande forza e schiettezza (Il Giudizio, la scelta, la contrapposizione intima tra pulsioni confliggenti), purtroppo quando si arriva nel metafisico il terreno risulta più scivoloso e ne risente anche la drammaturgia. Se il dialogo tra Ortrud e Telramund è una perla che da sola vale la regia, Il duello del primo atto – invece – risulta macchiettistico. In definitiva, il massiccio impatto comunicativo delle scene dove viene proposto un approccio più umano si affloscia ogni qual volta entra in scena un elemento divino (lo Spadone, Il cigno…ecc). Ma non dobbiamo farne un dramma, anche Dante era più a suo agio a descrivere il materiale inferno che l’etereo paradiso.
Piace la direzione di Fisch che gestisce molto bene le insidie della partitura. Questa opera viaggia in musica sul contrasto tra la tonalità di La Maggiore che accompagna il tema di Lohengrin alla sua relativa minore (Fa diesis) che introduce l’oscura Ortrund. Attorno a questa dinamica Eroe-Antieroe, gravitano Elsa e Telramund, che sono più terreni, alle prese con i loro dubbi, desideri e dissidi interiori. Questo, in musica, si traduce in un ricco vocabolario di colori orchestrali e dinamiche che vengono proposte senza nessuna sbavatura dall’orchestra. Bravo, bravo, bravo!
Bravi i cantanti, su tutti spicca Ricarda Merbeth che trafigge il pubblico con una Ortrud mefistofelica. Altrettanto riuscite le prove di Lucio Gallo, che mostra una gran caratura vocale e di Martina Welscheuenbach nei panni di una dolce Elsa. Forse un po’ sottotono Vincent Wolfsteiner che soffre in alto la lunghezza della parte. Ma – si sa- anche gli eroi sono umani.
Abbiamo lasciato per ultimo il coro. Lo so, chi ci legge si sarà scocciato di sentire i soliti magniloquenti apprezzamenti, quasi che si possano fraintendere per mera piaggeria. Non lo è, e non è colpa dello scrivente se il coro del comunale da sempre quel quid in più che innalza la rappresentazione. Ogni volta ci ripromettiamo di vivisezionarne la prova per trovare anche un solo difetto. Per il mero intento di fare i bastian contrari. Ma anche questa volta abbiamo fallito nell’intento, non è questo il giorno. Proprio dove il coro è chiamato ad una prova maestosa, la formazione di Gea Garatti Ansini sembra cantare a mezzo metro da terra. Così bravi da non sembrare veri, questo è l’unico elemento trascendente ben riuscito. A guardarli, annuendo dal palco di servizio alla destra del proscenio, proprio Richard Wagner (interpretato da Andrea Argentieri).
Dopo quattro ore, è tempo di saluti. La programmazione si trasferisce in zona fiera e la prossima volta sarà il turno di Verdi. Non ce ne voglia il barbuto compositore, per commiatare il Comunale a Bologna si grida W Wagner (sentiamo già in sottofondo l’effervescente scoppiettio di una verdiana gastrite).
Ciro Scannapieco