Qualcuno ha urlato “Vergogna” e non se ne capisce veramente il motivo. Eppure, la scena contestata – di tarantiniana memoria – con cui si apre il primo atto funziona. Donne in gabbia, seviziate, appese a ganci da macellaio. Brandelli umani nelle mani dei due aguzzini, ognuno in scena è privato di ogni traccia di umanità, con quella feroce crudeltà della guerra che scippa l’uomo dall’uomo e rendere il carnefice predatore e la vittima la sua preda. Rileggendo la scena non si trovano aspetti eccessivi o sconvenienti.
Saranno le donne in gabbia? In fondo, è una scena che appartiene ad una certa stucchevole consuetudine registica di stampo neo-femminista.
Più che scandalosa, l’impostazione sembra anche troppo vista e rivista. Sarà l’eccesso della violenza? Con tutto quel che ci succede attorno veramente possiamo farci turbare da una violenza scenica, finta, iperbolica e simbolista mentre assistiamo pacati ad altre e ben più concrete mattanze? Ma quale vergogna.
La Lucrezia Borgia del TCBO non ha nulla di cui vergognarsi. Anzi, le urla di disapprovazione sono sembrate più posticce che sincere.
Il beauty mark di Silvia Paoli è chiaro. La regista tende il filo dello scandalo per incidere e ferire la sensibilità della platea e, così, entrare nelle pieghe ferite della coscienza. Messaggio sociale e immagini forti per provocare la mente. Se questo è l’obiettivo, il “Vergogna” potrebbe essere lo scalpo della vittoria. Vittoria, però, che non è arrivata.
La Lucrezia vista al Comunale lega attorno ad una scenografia molto bella dei temi triti e ritriti. In primis, Il Fascismo come male assoluto in cui si incastona la questione femminile. Per carità, ci saranno anche delle motivazioni storiche ma la scelta è fin troppo abusata per risultare originale e provocatoria. Lucrezia è una donna resa cattiva dagli eventi che torna umana con la riscoperta dell’amore materno. Sinceramente nulla di nuovo.
Sullo sfondo, ripetutamente compare un mimo con la testa di Lupo, mentre una Lucrezia vestita da Cappuccetto Rosso nel prologo, rende allegoricamente chiaro che sia Lei la vera vittima.
Troppi ingredienti storici e allegorici che annoiano più che provocare, finendo per annacquare delle trovate che sarebbero -anche- di gran pregio. Sia la già citata scena delle gabbie, sia quella in cui i cantanti del coro agitano le mannaie, sono vere e proprie perle che avrebbero dovuto sublimare un successo più che buttare un salvagente alla recita. Perfino la scena finale in cui il mimo vestito da lupo si siede a capotavola per compiacersi della morte di Gennaro, ci fa rivalutare quella presenza bestiale che era risultata veramente fastidiosa e fuori contesto durante tutta la rappresentazione.
Insomma, è una visione registica ormai passata che sa di salotto, di cliché vestito da provocazione e ha quel gusto un po’ amaro e a tratti acido del cibo appena ossidato dal tempo. Non ha un sapore cattivo, è ancora commestibile, non causerà effetti indesiderati al sistema gastro intestinale ma non riesce a deliziare il palato.
E qui la domanda del secolo: perché urlare “Vergogna”? Non se ne trova alcun motivo.
È un peccato che il marchingegno registico non convinca perché le scenografie di Andrea Belli lasciano il segno e le coreografie di Sandhya Nagaraja supportano la narrazione.
L’azione si svolge in un mattatoio, un luogo chiuso, piastrellato con il tetto in lamiera e illuminato artificialmente. I contrasti sono forti e magnificano l’ambiente degradato. Bianche piastrelle rotte e tracce di sangue fanno da cornice alla crudeltà omicida della vicenda. Non c’è nulla di naturale, l’uomo in questa scatola degli orrori diventa belva.
Anche la musica segue questa sensibilità sparata sui contrasti. La direzione di Yves Abel non indulge ad alcuna nuances, è tutto incentrato sui registri forti. Non una sfumatura, o una nota tenue. Il direttore non indulge a dinamica e agogica. La sua è una direzione al “neon”.
Questa originale Lucrezia Borgia è un’opportunità non colta fino in fondo, lo diciamo con rammarico perché il cast vocale fa un’onesta figura.
Olga Peretyatko, nel ruolo eponimo, brilla per personalità. Non è la Lucrezia elegante che ci aspettiamo, quella più sanguigna che troviamo sul palco ma riceve molti applausi e sono tutti meritati.
La protagonista è ben supportata da Stefan Pop che- nonostante un’indisposizione annunciata prima dello spettacolo – porta a casa il ruolo di gran mestiere. Il suo Gennaro ha un bel timbro ed è sempre ben centrato. Non brilla Mirco Palazzi, il suo Alfonso non ingrana mai, un peccato. La prova è comunque onesta. Lamia Beuque, non dispiace ma disegna un è un Maffio Orsini un po’ troppo pavido e timido.
Non sarà lo spettacolo dell’anno ma è un allestimento non privo di spunti e qualità. Questa nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna con l’auditorio de Tenerife, Opera de Oviedo e Teatro de la Maestranza di Siviglia non ha nulla di cui vergognarsi.
Chi urla – forse – solo non ha i mezzi per decodificare questi contrasti. Fiato sprecato. Peccato che la Paoli non sia presente, in fondo ama punzecchiare gli zombie dalla moralità morilsta. Ne avrebbe avuto gratificazione.
Ciro Scannapieco