Talvolta i giudizi sono macchiati da catene più o meno lunghe di se e ma. E diciamocela tutta, per chi scrive è una manna dal cielo.
L’arte di cavillare è così irresistibilmente radical chic che trovare il pelo nell’uovo diventa quasi uno sport di categoria. In questa attività c’è (ovviamente) chi è più campione di altri, di cui si ammira e invidia la naturale abilità di costruire dissertazioni epiche sul dettaglio sbagliato fino ad arricchirlo di elementi filologici e formali.
A pensar male, viene il dubbio che qualcuno usi quel pretesto singolare per dar sfoggio alla conoscenza e all’eloquio. Eloquio che viene puntualmente seguito da schiere di follower indignati, con tanto di motivazioni di carattere etico oltre che estetico.
Addirittura, c’è chi mette sul tavolo perfino elementi morali. Oh mamma mia! In fondo quel pelo è quasi una benedizione, poco importa se si finisce per non parlare più dell’uovo.
Stavolta tocca parlare dell’uovo, perché di elementi sbagliati non ne riusciamo a trovare nemmeno uno. Un Ballo in Maschera è probabilmente la migliore produzione vista fin qui sul palco del Nouveau. Se non si può criticare di cosa si parla? Della musica, ovviamente.
Iniziamo proprio dal direttore. Riccardo Frizza riesce a spremere dalla buca un sentimento sincero. Il dramma verdiano è presente in ogni colore musicale e sapientemente sublimato nella scelta ritmica e delle pause. E’ un Verdi intenso senza essere inutilmente appariscente.
Sfortunatamente abbiamo dovuto registrare l’assenza di Anastasia Bartoli. A dire il vero (non ce ne voglia l’assente) ma non ce ne siamo fatti un cruccio.
Maria Teresa Leva è un’Amelia così bella che difficilmente avremmo potuto ascoltare di meglio. La voce ha un timbro bellissimo, così materico nella parte bassa e magnificamente levigato nei registri alti che raramente ne abbiamo ascoltati di simili.
L’intonazione viaggia sui binari e la grande naturalezza tecnica arricchisce l’espressività di legati meravigliosi e mai opachi. Brava! D’altra parte, Fabio Sartori è un Riccardo che condivide con l’amata una suadente facilità di canto.
La proiezione vocale, così grossa e burrosa, aiuta sia nelle linee gravi che negli acuti umidi e argentini. Rispetto a Leva, l’intonazione talvolta sgomma appena, ma, nell’insieme, è una coppia che avrebbe funzionato se la trama non avesse già legato la donna a Renato. Difficile tifare per qualcuno, anche perché l’altro – Amartuvshin Enkhbat – ha una voce così dolce che non possiamo non sentirci ammaliati.
Bravi gli altri. Silvia Beltrami e Silvia Spessot sono rispettivamente un’Ulrica ed un centrato Oscar en-travesti. Non dispiace il resto della compagnia: Zhibin Zhang (Samuel), Kwangsik Park (Tom), Andrea Borghini (Silvano), Cristobal Campos Marin (Primo Giudice) e Sandro Pucci (Un servo d’Amelia).
In una rappresentazione che strizza l’occhio al genere grand-opéra, non può che sguazzare l’eccellente coro diretto da Gea Garatti Ansini.
Veniamo alla regia, se avevamo nella scorsa Lucia anche noi partecipato al gioco dei cavilli, questa volta è veramente difficile trovare un difetto.
Le scene noir di Davide Signorini ed i meravigliosi costumi di Nika Campisi sublimano la regia molto centrata di Daniele Meneghini. Il suo è un Verdi tetro, cerebrale, sicuramente a tinte scure.
In mancanza del pelo, tocca parlare dell’uovo!
E questa volta è cotto a puntino, con un rosso cremoso e succulento.
Ciro Scannapieco