Kissin: il suono che dura per sempre

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Alcuni attimi valgono più di altri. Difficile capire il perché, ma alcuni, prima di scomparire nel successivo, in una sequenza di infiniti frammenti, lasciano una traccia indelebile nell’archivio statico della memoria. Alcuni attimi potrebbero durare per sempre.
Ci si potrebbe chiedere cosa li rende selettivamente più indelebili di altri, ma non troveremmo risoluzione al quesito (ed in fondo non gioverebbe a nessuno invilupparsi in pipponi esistenzialisti). Il concerto di Evgeny Kissin dello scorso
4 Marzo potrebbe suggerirci una risposta.
Nessun pianista è uguale all’altro, soprattutto i più grandi. Ne sono arrivati molti negli anni a Bologna all’interno del denso programma della Fondazione Musica Insieme.
Non si commette errore a dire che il Gotha pianistico sia passato almeno per una volta di qui. Ma Evgeny Kissin è davvero speciale.
Cosa c’è di più simile ad un attimo di una nota di pianoforte? Un impulso sonoro destinato a spegnersi nel silenzio di una flebile coda o, peggio ancora, cannibalizzato dalla successiva.
La musica è arte effimera che chiude sempre nel silenzio ma ad esso sopravvive se tocca corde profonde. Se  la nota dura un attimo, in quella di Kissin c’è l’intensità di un percorso, come un istante che racconta un tutto. Non è solo un fatto di mera meccanica pianistica (ovviamente all’apogeo del limite umano), ma è qualcosa di più profondo – che se non si fosse profondamente materialisti – si potrebbe azzardare la parola trascendente. Ci sono pianisti in cui la singola nota è solo un mezzo per raccontare una storia.
Qui, invece, la singola nota è già storia in sé.
Come se la complessità del suono che ascoltiamo, la scelta del tocco, della dinamica, del tempo, sia un lavoro spasmodico di affinamento, consapevolezza e studio.
Il controllo dello strumento è pressoché totale ed ogni segno sulla partitura è restituito alla platea con distinguibile identità.
Ma Kissin è un musicista (psico)analitico e nella complessità di una nota levigata dal tempo c’è un percorso artistico.
Si parte con la Seconda partita di Bach, manco a farlo apposta quasi una celebrazione solenne della nota. Ogni suono è scintillante e intellegibile, sebbene indissolubilmente legato al percorso musicale del brano.  È un Bach ortodosso (per quanto possa esserlo al pianoforte), governato da ordine di dinamiche e tempi. Quella del recital bolognese non è certamente un’interpretazione che indulge all’autocelebrazione, bensì è dedita a magnificare e rispettare la musica.
Il lavoro sulla singola nota è estremo, ed arriva alle orecchie con un livello di dettaglio nel messaggio difficilmente udibile.
Troviamo continuità di animo anche in Chopin. Chi è arrivato in sala con le registrazioni giovanili nelle orecchie si sarà trovato certamente spiazzato, come gli amanti di un certo pianismo melanconico (a cui auguriamo un pronto ravvedimento sulla via di Damasco o in caso contrario una lunga serie di sfighe). A loro potrebbe mancare quel sentimentalismo così stucchevole che talvolta rende la pagina di stile così irritantemente oleografica.
Fortunatamente siamo ben lontani da quei lidi. Qui si abbandonano coraggiosamente le consuetudini stilistiche.
Il romanticismo di queste pagine è epico, con un approccio che rinnega il sentimentalismo. Il dramma romantico è analizzato con lucida consapevolezza e l’utilizzo dello strumento è ponderato.
Il fraseggio del Notturno in do diesis minore op. 27 n. 1 è una piccola meraviglia. Un doloroso susseguirsi di linee, appena velate da un sapiente e parco uso del pedale.
Così come lo Scherzo n4 con trilli scintillanti e limpide melodie. Rispetto a molti -pur grandi -interpreti, che espongono uno Chopin di eruttante sentimento, in Kissin il romanticismo è un moto centripeto dell’Io.
Lo Chopin del pianista russo è la ricerca dell’anima.
L’approccio analitico è confermato nella seconda parte del recital, dove Kissin ha proposto il non consueto Shostakovich della Sonata n. 2 , brano difficile, insidioso, e raramente eseguito. Una musica bellissima che – leggenda vuole- pare essere stata destinata dallo stesso autore solo a frequentazione privata.
E una mezz’ora di ostica intimità. All’Allegretto iniziale che strizza l’occhio a Bach segue un Largo centrale molto rarefatto per poi chiudere con un moderato fiorito di splendide variazioni tematiche.
È stato proprio il movimento centrale, con i suoi tempi dilatati e la spiazzante e spietata semplicità, a commuoverci di un trasporto che resta attaccato alla memoria. Una prateria di suoni sparsi, già con un messaggio totale. Per quanto mi riguarda, il concerto poteva anche finire lì, avevamo incastrato un altro attimo nell’eterno del ricordo.
Fortunatamente non è finita lì, perché talvolta l’ingordigia pianistica taccheggia spazio al sublime.
C’è stato spazio per due Preludi e Fuga (24 e 15) e ben tre bis chopiniani. Ma di questi non diremo nulla, perché con il Largo Kissin aveva già detto tutto.

Ciro Scannapieco

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