Dal 25 al 30 marzo 2025 al Teatro India di Roma è andato in scena il monologo di Kafka «: Una relazione per un’Accademia» tratta dalla raccolta di racconti «Il messaggio dell’imperatore» pubblicato a Lipsia dall’editore Kurt Wolff.
La regia è di Luca Marinelli che per la prima volta si cimenta in tale ruolo; attore protagonista è Fabian Jung.
Lo spettacolo è già stato presentato con successo all’ultimo Festival di Spoleto.
In analogia con il testo, in forma monologica, la regia si presenta altrettanto essenziale, quasi in forma monodica, non indulgendo né a soluzioni seduttive per l’occhio dello spettatore, né a soluzioni sceniche che possano alludere a facili effetti di feedback.
Si conferisce così massima efficacia al peso del testo che, di pe sé e tutt’altro che teatrale.
Attraverso la sobria conduzione dell’attore – agile, leggero, a volte funambolico nei suoi movimenti sul palcoscenico – Marinelli evita ogni eccesso di enfasi nell’interpretazione che esuli dall’essenzialità del testo letterario che, in linea con il codice narrativo di Kafka, rifugge da barocchismi e rimandi.
Essenziale la scena: sul palco vuoto solo una scala, testimone stilizzato di una foresta ancestrale della scimmia selvatica e un “mobiletto” che può fungere anche d gabbia, a citazione metaforica di prigioni reali di eri, e purtroppo anche di oggi di grande attualità.
A loro volta le luci bianche, fredde spesso abbaglianti colpiscono lo spettatore, ma non gli lasciano la possibilità di indugiare su dettagli visivi perché subito la voce dell’attore richiama l’attenzione al contesto della vicenda che viene narrata ed è la narrazione stessa che si fa rappresentazione del drammatico vivere di Peter Rot, l’uomo-scimmia o meglio la scimmia-uomo, unico protagonista del monologo.
Non è impresa facile rendere sul palcoscenico un vissuto paradossale (uomo? scimmia? ma Kafka ama i paradossi!) in cui avviene una metamorfosi ovidiana al contrario.
Infatti, nella mitologia classica sono gli esseri umani a trasformarsi in qualcosa di altro da sé: animali, piante, stelle, incorporee voci.
Qui accade un rovesciamento di paradigma: una scimmia diventa uomo ed è così simile agli umani da trasformarsi addirittura in un accademico che tiene una relazione sulla sua trasformazione con la quale guadagna la liberazione dalla gabbia.
Narra così le sue vicissitudini di animale braccato, ferito, imprigionato in una condizione degradata (ci viene in mente qualcosa di già visto?) dalla quale man mano si riscatta metamorfizzandosi ad un punto tale da divenire “accademico” e non un qualsiasi uomo.
Ma con tale autorevole condizione Rot Peter non risolve il problema del suo esistere: troppo per l’animale da cui proviene e poco per l’uomo in cui si trasforma che, a sua volta, è il prodotto di uno standard umano di eccellenza, ma parla da solo e nessuno interloquisce con luji, che ha ancora movenze scimmiesche.
E qui si può apprezzare l’abilità del regista che con un vero e proprio coup de theatre sceglie come interprete un attore tedesco, Fabian Jung, che aggiunge spontaneamente alla narrazione della vicenda un’efficacia maggiore nella resa del personaggio: strano e straniato dal contesto perché, certamente uomo e per di più accademico, ma pur sempre scimmia.
Dunque Peter Rot non padroneggia la lingua in cui espone la sua relazione che espone con inflessioni e cadenze straniere non proprie ad una dotta lectio.
Non manca in questa messa in scena il senso di incomunicabilità esistenziale propria della filosofia kafkiana: ogni messaggio è incomunicabile perché nessuno mai potrà parlare mai di una realtà che è cosa dubitabile che esista oggettivamente poiché forse è solo nel pensiero pensato soggettivamente.
È il massimo del solipsismo esistenziale!
E come rendere in teatro tutto ciò?
Svuotando la scena di qualsiasi riferimento di contesto, lasciando il personaggio-attore da solo, abbagliato da luci intense, bianche, impietose in uno spazio anonimo in cui Fabian-Peter Rot sembra più parlare a se stesso, in se stesso.
Quindi l’assemblea degli accademici appare inglobata nel suo io collettivizzato, replica di un se stesso divenuto ormai simile all’Imperatore, che non può far arrivare il suo messaggio a nessuno, perché il messaggero non potrà mai raggiungere il popolo; troppe le mura, i corridoi, i cortili del palazzo nella Città Celeste, per uscirne fuori.
Comunque, il messaggio è solo ormai quello di un morto! Mai nella realizzazione di tale lavoro il regista indugia nel dire euristicamente la paradossale disperazione della condizione umana nella quale Kafka proiettava se stesso.
Emma Amarilli Ascoli