Il nome Macbeth è da sempre sinonimo di ambizione nella sua accezione più negativa.
Ma la complessità della storia non si può sintetizzare con la sola sete di potere malata che porta i protagonisti, spinti da un irrefrenabile impulso, a compiere gesti atroci pur di soddisfare le proprie brame.
Macbeth è il precipizio dell’umanità, di ogni epoca. È quel ciglio verso l’irreparabile, la vittoria dell’oscurità che alberga in ciascuno di noi.
Verdi rimase così affascinato da questo testo che lo usò quasi come una sorta di laboratorio per modificare la consuetudine operistica ottocentesca. Non solo introdusse dei recitativi parlati ma quasi pretese un’estremizzazione del canto, come appare in molti reperti dell’epoca. Come a voler sottolineare che la malvagità diviene privazione di ogni bellezza: «La Tadolini ha troppo grandi qualità per fare quella parte! […] Ha una figura bella e buona e io vorrei Lady Macbeth brutta e cattiva. La Tadolini canta alla perfezione e io vorrei che la Lady non cantasse. La Tadolini ha una voce stupenda, chiara, limpida e potente e io vorrei in Lady una voce aspra, soffocata, cupa. La voce della Tadolini ha dell’angelico, la voce della Lady vorrei che avesse del diabolico».
Non a caso per il protagonista l’autore non sceglie di utilizzare l’eroico registro tenorile, preferendogli un più cupo baritono.
Nell’idea di Jacopo Gassman, Macbeth e la sua Lady sono ritratti come una coppia qualunque, al pari di altre regalateci dalla cronaca più attuale, di cui non faremo nomi. In tutta la narrazione c’è sempre un dialogo tra due poli. Prima tra marito e moglie, tra Macbeth e le streghe, tra l’assassino e le voci dentro; c’è sempre un sottile dualismo che porta i personaggi ad essere dilaniati dai propri misfatti.
La componente psicoanalitica è molto forte e pare voglia indagare all’interno della psiche per spiegare cosa possa spingere una coppia “comune” a compiere un delitto tanto atroce.
Questa forte interiorizzazione è sostenuta da una scenografia in sottrazione, asciutta. Le luci sono molto intense, spesso orientate anche verso la platea, come a forzare contrasti cromatici.
Nella geometria che pervade la scena, fanno spesso capolino elementi mobili, una sorta di scatole, che entrano dai lati della scena, prima a comporre un tavolo scomposto, poi a figurare le camere da letto dei protagonisti. Ma a guardarle meglio sembrano delle gabbie che imprigionano l’uomo in sé stesso, creando dei setti di separazione tra i protagonisti stessi.
Nel bipolarismo che contraddistingue il libretto, trova accomodamento anche l’opinione della recita bolognese dello scorso 12 Aprile.
Nonostante i protagonisti abbiano espresso gran doti vocali, soprattutto nei primi due atti i numeri dei solisti non hanno sostenuto pienamente il dramma.
Sia chiaro, la prova di Ekaterina Semenchuk è stata molto buona, con un gran timbro nella parte centrale del registro ed una buona propensione verso l’alto. In alcuni punti dei recitativi, forse pagava qualche asprezza di dizione e nel cantato soffriva una dinamica non delle più spinte ed un fraseggio poco accorto alla buca. Stesso discorso (solo un po’ meno accentuato) per Roman Burdenko.
Ottima la prestazione del resto del cast, soprattutto per il Macduff di Antonio Poli. Bravi gli altri: Marco Miglietta in Malcom, la Dama di Anna Cimarrusti, Gabriele Ribis Domestico Sicario e Araldo e Kwangsik Park nei panni del medico.
Riccardo Fassi, infine, soffre un po’ la parte ma la porta a casa di mestiere.
Sul podio troviamo un Daniel Oren che cesella bene le parti più contrastate e si esprime al meglio della sua sensibilità solo nei momenti corali, dove mette la firma. Buona la prova dell’Orchestra del Comunale di Bologna.
Della regia si è già detto. Se da un lato si integra molto bene con gli spazi del comunale Nouveau ed ha avuto momenti di gran classe (come le immagini allo specchio o le luci in generale), dall’altro l’utilizzo delle retroproiezioni sembrano sempre un vorrei ma non posso, un vezzo di aggiungere un ulteriore meta-livello con immagini che appaiono superflue (e non bellissime).
In questa sospensione di giudizio tra cose molto belle ad alcune così così, arrivano loro. Perché, in momenti come questi, il Coro diretto da Gea Garatti Ansini fa sempre pendere la bilancia dal lato giusto del giudizio.
“Patria Oppressa” è una gemma in cui anche un Oren tutto sommato contenuto ritrova lo spirito del “suo” Nabucco.
Quando va bene, c’è il Coro. Quando va male, c’è sempre il Coro a metterci una pezza, quando va così così danno qualche punto in più. Mica poco, giusto chiudere con loro: Bravi!.
Ciro Scannapieco
Foto Andrea Ranzi