«Stephan Bantu Biko – un testimone di speranza» è un libro per riflettere sul recente passato

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Affrontare la biografia di un intellettuale organico del suo tempo, la cui esistenza è stata interrotta a soli trent’anni dalla violenza dell’oppressore, è un argomento che potrebbe apparire difficile nella restituzione poiché inevitabilmente o influenzato dalla vicinanza temporale e dalla condanna morale pronunciata dalla coscienza.
Riconsegnare alla nostra contemporaneità e alla storia, rendendo attuale il pensiero di Biko, è lo scopo dell’autrice Sara Carbone nella redazione del volume «Stephan Bantu Biko – un testimone di speranza» edito da Marsilio Editore nella collana I giorni, marzo 2024, pagine 144 p., Brossura, euro 15,00.
Sin dalle pagine dell’introduzione Sara Carbone delinea i termini dell’argomento: società dominata da un linguaggio che ne determina la realtà e lo definisce; universalismo contrapposto all’idea di razza; decolonizzazione e idea di negritudine. «La sua parabola umana, il suo tentativo di risvegliare la coscienza dei colonizzati a partire da una riappropriazione del linguaggio, dell’atto di parola, la stretta relazione che esiste, inoltre, tra linguaggio e corpo, tra impossibilità di esprimersi nella propria lingua e meccanismi spersonalizzanti, tra linguaggio e riattivazione della memoria, portano l’attenzione sul concetto contemporaneo di biopotere, inteso come esercizio della sovranità basata sulla scissione deliberata e pianificata, da parte degli esseri viventi, fra chi ha pieno diritto di vivere e chi ne è privo, sulla divisione, altrettanto deliberata e pianificata, della specie umana in sottogruppi, che in passato venivano presentati come razze, in altri si configuravano come classi, se si opposti; oggi, più genericamente come minoranze
La grande innovazione affrontata nella riflessione di Biko interessa la sfera del linguaggio, la PAROLA che vuole definire e racchiudere pensiero.
Un pensiero che potrebbe risultare condiviso dal mondo intero uscito dalla grande sofferenza, in numero di vite umane, della Seconda Guerra Mondiale.
Una parola per giustificare il predominio di un mondo su un altro. Non è prerogativa della sola Europa, quella della “cortina di ferro”, la contrapposizione tra due modi di concepire la vita su basi economiche; in Sudafrica con la APARTHEID si vuole operare un progetto di convivenza tramite la separazione: si può vivere BENE insieme se si è separati.
La separazione porta in sé la discriminazione poiché le risorse, sia in termini economici, che sociali e culturali sono differenti. Ai cosiddetti BIANCHI dominanti, perché considerati il motore produttivo e politicamente avanzato, spettano le migliori condizioni per perfezionare la propria personalità, ai NERI invece, considerati, da studi pseudoscientifici, inferiori, la possibilità di divenire esecutori materiali e quindi non necessitanti formazione.
La prima domanda che BIKO urla, lui cresciuto immerso nel contesto dell’Apartheid, è chi sia in diritto di definire cosa destinare a ciascun dei due gruppi e a chi tocchi la stessa classificazione dei due gruppi.
Nell’articolo «We Blacks di Biko» Sara Carbone sottolinea come «era giunto a conclusioni decisive, il nero in quanto “razza” non esisteva e la creazione delle razze era un’inutile finzione per distogliere le masse da conflitti più importanti quali, appunto, la lotta di classe o la lotta dei sessi; “produrre il nero”, inoltre, voleva dire creare un “corpo di sfruttamento”, «un corpo, completamente esposto alla volontà di un padrone e dal quale ci si sforza ottenere la massima redditività».
I termini della lotta di Biko, forse troppo anticipatori, sono legati all’idea di Black consciousness  – Coscienza nera, dove bisognava andare oltre la definizione di non-bianco. La particella negativa “non” al suo interno racchiude l’idea dell’inesistenza, dell’emarginazione, della segregazione, dell’eliminazione. Il non produce nell’immaginario collettivo sia una sistematizzazione del “non essere” sia dell’”esclusione”. Cosa contrappore al termine non-bianco? NERO.
La sua riflessione sulla parola NERO riporta come l’occidente con essa identifichi lo sconosciuto, il poco chiaro, l’indistinto e indeterminato, il male contrapposto al bene dei bianchi.
Come far sì che questo termine potesse avere accezioni positive, divenire storicamente identitario di un gruppo di persone che non possedeva quindi la memoria storica e il linguaggio adatto per potersi esprimere? La cultura bianca ne aveva determinato la distruzione, trecento anni di dominazione bianca avevano alienato le lingue originali e l’immaginario ad esso legato, rendendo il non – bianco succube della cultura e della auto affermata superiorità bianca. Parlare di NERO voleva dire sviluppare la cultura della NEGRITUDINE.
Sara Carbone si sofferma sull’idea di Biko di Nero, affermando che «Parlando di “gruppi” umani e non di “neri”, era chiaro che per Biko la causa delle discriminazioni di cui erano oggetto i neri in Sudafrica non fosse, appunto, il colore della loro pelle. I neri del paese erano tutti i “non bianchi” ossia i coloured, gli asiatici e gli african; i neri erano tutti quelli che abitavano la colonia, tutti quelli “chiusi nel recinto” che il governo dei bianchi si era premurato di tenere separati.»
L’idea di Biko in merito alla NEGRITUDINE è una svolta se inserita nel panorama culturale degli anni sessanta/settanta. La cultura africana si basa sulla centralità dell’Uomo e sul desiderio di comunicare fine a sé stesso. L’uomo africano deve essere considerato nella sua interezza, avulso dalle categorizzazioni occidentali come bene e male, reale e irreale, capace e incapace; la stessa spiritualità è un sentimento collettivo così come l’idea di proprietà privata. Alla base della comunicazione vi è il ritmo musicale, un ritmo che può essere adattato ad ogni manifestazione dell’agire umano poiché appartiene e viene agito dalla collettività.
Quindi la NEGRITUDINE è un riappropriarsi della lingua/linguaggio per narrare l’umanità, soprattutto la storia dell’Africa e degli africani, non il racconto distorto dagli occhi degli occidentali. Il pensiero della NEGRITUDINE pervade la formazione di Biko, una formazione di stratificazione della propria COSCIENZA di ESSERE NERO e dell’uso della forza della parola per condividere con gli altri il proprio pensiero. Biko nell’articolo We Blacks del 1971 afferma «Uno degli aspetti fondamentali del nostro retaggio è l’importanza che attribuiamo all’uomo. La nostra è sempre stata una società incentrata sull’Uomo. In molte occasioni, gli occidentali sono stati sorpresi dalla capacità che abbiamo di parlare tra noi non per il piacere di arrivare a una determinata conclusione ma semplicemente per godere della comunicazione fine a se stessa
Se la condanna ricevuta dal governo sudafricano di non incontrare più di una persona alla volta aveva il significato di ammutolirlo, lo stratagemma utilizzato da Biko di pubblicare con pseudonimi e di incontrare gli altri ha reso il suo pensiero pervasivo e inarrestabile nella cultura nera sudafricana.
Sara Carbone descrive l’inchiesta per chiarire le cause della morte di Biko leader del Black Consciousness Movement, ancora oggi dichiarata morte naturale e non conseguenza degli abusi dei giorni di prigionia da parte delle guardie. Bisogna però affermare che il giudice Prins il 30 novembre 1977 emanò la sentenza dalla quale si evinceva che la causa del decesso era una lesione celebrale dovuta ad uno scontro negli uffici di polizia ma «la morte non poteva essere attribuita ad alcuna azione o omissione ascrivibile ad un reato
Le parole al processo hanno un ruolo fondamentale, poiché molti degli spettatori non comprendono, viene usato l’afrikaner e sia i giornalisti occidentali presenti sia gli africani spesso hanno difficoltà a comprenderla.
Il pensiero di Biko, come sottolinea l’autrice Sara Carbone, è volto alla realizzazione di una umanità che abbia coscienza della propria identità senza per questo prevaricare le altrui.
Concludiamo con una frase di Biko «Alla base di una valida integrazione c’è la disposizione affinché ogni uomo, ogni gruppo si dia da fare per elevarsi e raggiungere l’immagine che ha di sé stesso. Ogni gruppo deve potersi manifestare nella pienezza del suo essere, senza usurpare l’altro o esserne ostacolato.»

Tonia Barone

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