L’accostamento è di quelli stravaganti. Come accade in cucina quando metti assieme due ingredienti tanto diversi; può venir fuori un piatto gourmet o…la pizza con l’Ananas.
Dipende dalla sapienza dello chef.
Di primo acchito il Dido & Æneas di Henry Purcell – scritta a fine ‘600 – non ha comunanze con il Die Sieben todsünde del duo Weill-Brecht. Pensare ad un dittico che li proponga in sequenza è certamente inusuale se non sconsiderato. Eppure la regia è riuscita nell’intento di legarli in modo coerente – incredibile a dirsi.
Tutto merito del cuoco?
Se stessimo parlando di cibo, Daniele Abbado avrebbe diverse stelle sul grembiule.
«Quello che mi interessa di più -spiega il regista – è dare vita a progetti nuovi come nel caso di questo dittico, dove correre il rischio di accostare linguaggi lontani fra loro nel tempo per musica e linguaggio. E collegarli».
Il tema delle città è il fondo che lega i due titoli. Perchè le città sono il contenitore dove si consuma la vicenda umana.
Cartagine è la città fondata da Didone, Enea ne ha un’altra nel destino (Roma), fino alle sette metropoli americane che sembrano profetizzare una deriva individualista del mondo.
La storia di Didone ed Enea è nota ma il modo con cui ci è stata raccontata è tutt’altro che banale.
Registicamente l’impianto visuale è, nella sua semplicità, di grande impatto (anche per merito del sapiente lavoro di Angelo Linzalata).
Pannellate mobili con tagli luminosi vengono spostate dalla moltitudine del coro, mentre lo sfondo illuminato, neutro, crea contrasti fortissimi con l’azione che si esplica sul fronte del palco.
Proprio il Coro, una volta di streghe, altre di marinai, rappresenterà quella forza (divina?) che porterà Enea a partire e Didone a soccombere.
Apprezzabile la scelta musicale del direttore Marco Angius di completare le parti mancanti della partitura con 3 Cori di Didone di Luigi Nono musicati su versi di Ungaretti e con un frammento del Okanagon di Giacinto Scelsi. Un contrasto nel contrasto, fatto di elementi di avanguardia musicale all’interno di un impianto barocco. Questa suggestiva giustapposizione di linguaggi è la chiave che rende democraticamente vincente un titolo che avrebbe potuto essere destinato solo ad un pubblico di nicchia. Con questa scelta musicale non è servito nemmeno osare troppo nella direzione, che risulta sobria e misurata.
Veramente buona la prova del cast Vocale: Mariam Battistelli è una perfetta Belinda, mentre Francesco Salvadori tratteggia un Enea versione “uomo che non deve chiedere mai”.
Molto convincente il breve intervento di Paola Valentina Molinari. Buona la prova Vocale di Danielle de Niese, sebbene non sia del tutto comprensibile la scelta registica di portarla emotivamente quasi fuori dagli eventi. Si fatica a digerire questa Didone che non esplode mai in un dolore disperato. Scelta registica o limiti attoriali? Bravi tutti gli altri: Patricia Daniela Fodor, Bruno Taddia, ottimo nel ruolo de la Malga, e le strambe streghe Marco Miglietta e Andrea Giovannini.
Se la prima parte, da sola, valeva la serata, la seconda – invece – ci ha veramente convinto. La musica di Kurt Weill -del 1933 – è scintillante mentre il testo di Brecht è tagliente. I due scrissero l’opera in esilio dalla Germania nazista con un forte intento di critica sociale. Scelsero infatti il linguaggio del balletto cantato per sublimare con ironia il drammatico declino che gli sembrava inevitabile.
Due sorelle (Anna I e Anna II), si ripromettono di riuscire a guadagnare del denaro per comprare una casa in Luisiana e -così- iniziare una vita indipendente.
In realtà le due sono lo stesso personaggio rappresentato in una sorta di conflitto dialettico interiore. Anna I, a cui spetta la parte cantata, è il lato razionale permeato di pavido perbenismo, mentre Anna II, che comunicherà attraverso il ballo, è sprezzante irrazionalità.
Il viaggio attraverso sette metropoli americane, per l’appunto i sette vizi capitali, disumanizza il protagonista, che per raggiungere l’obiettivo dovrà prostituirsi, accettare umiliazioni o cimentarsi in accattonaggio. Se l’anima razionale della prima Anna ammonisce con il canto il suo alter-ego, nella pratica la spinge ad ogni nefandezza pur di guadagnare il denaro necessario. Quando torneranno in Luisiana, avranno sì comprato una casa, ma avranno perso per sempre la loro disincantata umanità.
È una cinica tragedia della modernità, dove si può essere sconfitti anche raggiungendo l’obiettivo.
Un plauso a Danielle de Niese che è un’Anna I perfettamente ambigua e a Irene Ferrara che ne danza la caduta agli inferi. Molto caratterizzati gli uomini, che rappresentano quella che oggi sarebbe definita famiglia disfunzionale della ragazza.
Andrea Concetti, Andrea Giovannini, Nicolò Ceriani e Marco Miglietta, tratteggiano con molta ironia un certo degrado domestico. Eccezionali le coreografie del corpo di ballo diretto da Giada Masi.
Anche questa volta non ci siamo dimenticati del coro diretto nel solito modo eccellente da Gea Garatti Ansini.
Come faremmo senza di loro? Avere un coro che quando le cose vanno bene (come in questo caso) da sostanza al risultato, mentre ci mette una pezza nelle produzioni più sbilenche, è tanta roba.
Tornando al cibo, fortunatamente questo dittico non è una pizza con l’ananas..Piuttosto è’ un food pairing ardito e raffinato, come… non lo diciamo per non innescare diatribe gastronomiche.
Ciro Scannapieco