«Nelle opere di Verdi il racconto si fa etico, diventa una narrazione dell’anima che esiste in qualsiasi tempo ed è sempre votata all’oggi».
Così commenta il regista Davide Livermore nell’illuminante intervista di Andrea Maioli presente sul libretto di sala, dandoci lo spunto per una più ampia riflessione.
Circoscrivere Il Trovatore nel recinto di una certa filologia operistica, sarebbe come disinnescarlo del contenuto universale. Verdi parla a tutte le epoche, quasi che il termine attualizzazione, spesso abusato per descrivere un certo approccio, potrebbe essere fuori luogo.
Non si può attualizzare ciò che è già attuale.
Se, invece, per attualizzazione si intende rivestire con un’estetica contemporanea una storia che ha ambientazione nel passato, allora sì: questa regia è attuale.
Non possiamo che trovarci d’accordo con Livermore quando chiosa: «A teatro la rappresentazione delle cose deve imitare il vero in maniera difettosa e svelare qualcosa di nascosto nel quale tutti possano entrare».
Che sia la Spagna del XV secolo o un non definito tempo odierno poco importa se il messaggio viene custodito in modo autentico.
Sicuramente la visione artistica è uno degli spunti più interessanti di questa nuova produzione del TCBO in collaborazione con il Teatro Regio di Parma.
Come già accennato,l’ambientazione porta in scena un attuale non identificato cronologicamente, pregno di elementi non coevi e volutamente disambigui tra di loro. E’ un approccio distopico, inserito in una periferia degradata, frequentata da circensi rom e personaggi post-punk che abitano uno scenario bellico.
Dando profondità allo sguardo, invece, questa libertà registica contrasta con un approccio drammaturgico e musicale rigoroso. Vengono rispettati, infatti, sia i rapporti tra i personaggi che i momenti musicali del libretto (al netto di una licenza data a Manrico nel Son io dal cielo, che è ormai quasi un frequente cliché interpretativo). Raffinata la concertazione di Renato Palumbo, che è di certo tra i punti di forza della produzione bolognese. Dalla buca emergono suadenti nuances.
La scelta di elongare estenuantemente i tempi più lenti confligge con i passaggi più veloci che – pur rimanendo fedeli alla tradizione metronomica – nel contrasto appaiono quasi più frenetici. L’approccio è funzionale alla tensione e catapulta l’ascoltatore nel dramma.
È una scelta che pretende molto dai cantanti, ma il cast è più che solido e fornisce una buona prova. Brillano le donne.
Spicca la Leonora di Marta Torbidoni, che ha una vocalità vibrante ed un timbro bellissimo e articolato in tutti i registri. Belli i trilli argentini e suadentemente morbide le frasi di più ampio respiro. Ottimo il fraseggio in scale e arpeggi. Si annota solo un accenno d’ombra nel finale dell’ultimo atto, ma la parte è lunga e la direzione pretenziosa. Dopo il primo atto, avevamo pensato dell’Azucena di Chiara Mogini ad una presenza che marcasse il cartellino con mestiere. Invece, nello sviluppo della partitura siamo rimasti sopresi per come imponesse la vocalità. È un piacere ascoltare una voce così morbida e naturale nel registro centrale, che non arretra mai, nemmeno nelle note più acute.
Roberto Aronica è una frequentazione abituale a cui riconosciamo sempre grande solidità. Anche questa volta porta a casa una parte che non gli è proprio congeniale e che soffre (ma tiene) in più di un passaggio.
È piaciuto Lucas Meachem, al debutto nei panni del Conte di Luna. Sicuramente una buona prestazione per volume, timbro e fraseggio. Robuste le prove di Gianluca Buratto, Cristiano Olivieri e Benedetta Mazzetto, rispettivamente nei panni di Ferrando, Ruiz e Ines.
A magnificare il tutto, c’è la solita performance di altissimo livello del coro diretto da Gea Garatti Ansini.
Alla fine, applausi per tutti. Troviamo riuscito il gioco drammaturgico di far rivivere l’oggi nel passato. Ma non chiamiamola attualizzazione “E’ il nostro tempo ma anche un altrove, è una contemporaneità distopica in cui i gitani esistono, sono giostrai e circensi e spesso vivono sotto i cavalcavia delle nostre tangenziali sulle quali sfrecciamo a bordo delle nostre auto senza minimamente renderci conto che sotto di noi pulsa una vita rimossa da una società che non sa più osservare il territorio, ma vive il tempo solo attraverso logiche virtuali o fake”
Ciro Scannapieco