Lo diciamo subito, non parleremo di Lucas Debargue in toni sensazionalistici, sarebbe come ridurre la complessità dell’uomo, prima che del pianista, ad un fatto di colore.
Che sia stato ritratto a suonare il pianoforte con il chiodo di pelle ci interessa quel che basta. Per quel che abbiamo ascoltato, avrebbe potuto sedersi allo sgabello anche nudo.
Perché quel che interessa in un recital pianistico è la sensibilità del musicista, l’interpretazione.
In definitiva, l’emozione che è sostanza sulla rigida (solo in apparenza) forma classica.
A scanso di equivoci, il nostro si è presentato sul palco dell’auditorium Manzoni lo scorso 12 Febbraio per la stagione concertistica della Fondazione Musica Insieme con un normalissimo abito grigio.
Parliamo di musica. L’interpretazione è fangosa terracotta che viene plasmata su un modello di riferimento. Ogni mano, ogni anima ha il suo tratto distintivo che va compreso. In questa nuova conoscenza, uscendo dalla sala, eravamo sì molto soddisfatti per quello che avevamo ascoltato, ma anche decisamente inviluppati in un profondo stato riflessivo.
Debargue non è il più classico degli interpreti, perdonerete il gioco di parole. Non perché si sia abbandonato ad eccessivi esotismi (solo un po’); l’approccio allo strumento è sì personale, ma meccanicamente solido e peculiarmente ortodosso.
Quell’anima fangosa di cui abbiamo parlato, arriva modellata, asciutta e solida alle nostre orecchie. Ormai è già vaso che ospita fiori diversi che mischiano profumi e colori nello spazio circostante. Complessità inaspettata, che impone una stancante metabolizzazione dell’esperienza di ascolto.
La conformazione di un giudizio è un atto di violenza introspettiva che prevede l’intrusione di un elemento “altro” in chi ascolta. Ma è una meravigliosa fatica, ed è il motivo per cui amiamo la musica.
Il programma – all’apparenza sconclusionato – non rende semplice il compito all’ascoltatore. Le due parti dell’esibizione – simmetriche per repertorio – prevedono brani di Fauré, Beethoven e Chopin, nemmeno proposti con sequenza cronologica.
In un’epoca di iper-specializzazione, dove il successo sembra dover passare per un’eccessiva caratterizzazione del repertorio, Debargue sciorina più di un secolo di pianismo (che diventano 2 se consideriamo i due bis di Scarlatti).
Questo recital è l’incontro con un uomo complesso di trenquattro anni che ha iniziato a suonare il pianoforte all’età di dieci per poi interromperne lo studio in adolescenza, prima di riprenderlo verso i venti. Nel mezzo tanta letteratura, pittura e introspezione.
Non di certo un percorso lineare. Ma di lineare – per quel che abbiamo ascoltato – in Debargue non c’è nulla. Se volessimo guardare alla scelta delle opere interpretate, seguendo un approccio cronologico, non ne coglieremmo la sintesi. Perché nella soggettività del tempo, i tre autori di epoche diverse sono stratificati in un sottosuolo unico su cui radicare un’esperienza interpretativa di raffinata profondità.
Il pianismo del francese non ha nulla di patetico e ammiccante.
Non c’è sentimentalismo fine a sé stesso o eccessiva veemenza alla tastiera a rivoltare questo suolo armomelodico. Il suono è limpido, con l’uso del pedale ridotto al minimo indispensabile, le dinamiche sono ampie ma mai eccessive agli estremi, quanto accompagnate in lunghi e sensibili crescendo/diminuendo. L’agogica è soggettivamente bergsoniana con una mano sinistra che scandisce il tempo dell’anima con fulgida consapevolezza mentre il fraseggio (talvolta personalizzato) disegna i passaggi con un netto tratto autobiografico. Le corde non suonano mai “umide”, la terracotta musicale sembra ben asciutta di riflessione.
Si è parlato poco del programma che vede il momento più esaltante nella splendida Sonata n. 27 in mi minore op. 90 di Beethoven della seconda parte, che (finalmente) spolvera questa partitura dagli abusi romantici di molti interpreti a favore di un cinematismo musicale ed emotivo di assoluto impatto. Chopin (sia nello Scherzo n. 4 in mi maggiore op. 54 che nella terza ballata) potrebbe far storcere il naso ai romantici più incalliti per l’estrema libertà del cantato sostenuto da un ritmo drammatico ed un suono luminoso. Lasciamo per ultimi i due brani di Fauré che hanno aperto i due momenti dell’esibizione, soprattutto nei nove Preludi il livello emotivo prima che esecutivo è rimarcabile. L’integrale dell’opera del compositore francese, interpretato da Debargue è in uscita il prossimo 8 Marzo.
Forse non è stata la serata adatta a chi ama interpretazioni trasparenti dove il pianista è solo un medium per una musica che dovrebbe manifestarsi -pura- per mano altrui; ma tant’è che questa è una posizione che stento a far mia. Preferisco di gran lunga incontrare l’uomo nella musica che la musica nell’uomo. Almeno quando l’uomo, ancorché il pianista, è di spessore. Come in questo caso. Anche questa volta la Fondazione Musica Insieme ha fatto centro.
Ciro Scannapieco