- «Non ha la pretesa di essere un testo musicologico, né di Storia della Musica, ma di aprire delle finestre su alcune primedonne del melodramma; non le prime primedonne, mi si perdoni l’allitterazione, perché in quel contesto Napoli vanterebbe i primati di Adriana Basile e di Giulia De Caro, ma di artiste la cui vicenda umana meglio ha segnato l’evoluzione della società»
È Stefania Bonfadelli a parlare del suo volume «L’Opera delle Primedonne» , edito da Lindau, che sarà presentato lunedì 12 febbraio alle 17,30 nella Chiesa di Santa Caterina da Siena, a cura della Fondazione Pietà de’ Turchini dall’autrice con i professori Massimo Loiacono e Paologiovanni Maione.
In tempi di esasperata attenzione alla concordanza di genere dei sostantivi inerenti alle professioni, e soprattutto in campo musicale, riflettere su come «Primadonna» sia diventato, dopo un processo di crasi per giustapposizione, un termine associato persino ad uomini egocentrici, è rivelatore di evoluzioni del costume nella storia degli ultimi secoli.
Queste e molte altre riflessioni scaturiscono dalla lettura di «L’Opera delle Primedonne» volume di Stefania Bonfadelli, edito da Lindau, che lunedì sarà presentato nella Chiesa di Santa Caterina da Siena, a cura della Fondazione Pietà de’ Turchini, in collaborazione con l’ Associazione Amici del Teatro di San Carlo.
Regista di opera e già soprano apprezzatissimo (sull’uso del maschile si leggerà anche dalle pagine del volume), Stefania Bonfadelli ha collaborato come cantante, con i più grandi registi e direttori d’orchestra come Riccardo Muti, Zubin Mehta, Lorin Mazel, Sejij Ozawa, Daniel Oren e Dario Fo, Franco Zeffirelli, Robert Carsen, Luca Ronconi.
Registicamente e non solo, Bonfadelli è “figlia” di Franca Valeri, tant’è che alcune biografie riportano proprio quella maternità spirituale, non biologica né anagrafica, ma espressione di un’adozione affettiva avvenuta negli ultimi anni di vita della indimenticabile attrice e regista.
Sfogliando le 140 pagine dell’agile volume si incontrano dive del melodramma lungo tre secoli; donne spesso di estrazione modestissima per le quali il canto è stato opportunità di ascesa sociale di liberazione da costrizioni materiali, da sfruttamento e da violenze sessuali.
«Una bella voce e la carriera che ne consegue possono essere una rivincita – afferma Bonfadelli – una rivalsa e non di poco conto. Penso che questo riscatto sia stato soprattutto a favore delle donne, sempre svantaggiate rispetto agli uomini, pressoché in tutti i campi, tranne che nel teatro, da sempre unico luogo che abbia permesso a donne di talento una via di fuga da esistenze miserande».
Eppure il Melodramma nasce, in Italia, in epoca controriformista prigioniera di maschilismo e di androcentrismo, al punto che alle donne, in ossequio ad una prescrizione di Paolo di Tarso, è assegnato l’obbligo di tacere; tale prescrizione, come è noto, introduce nel canto l’uso dei castrati, cui assegnare le parti vocali superiori, parti da “soprano” o da “contralto”, con denominazione al maschile.
Le donne si trovano perciò ad affrontare una concorrenza agguerritissima di quelle che sono le vere pop star dei secoli XVII e XVIII.
Perché dunque prima donna e non primo uomo? C’è forse un atteggiamento irridente nei confronti di individui sventurati, mutilati sessualmente ?
Un più sottile non volere definire chi sia un primo maschio, quello alfa, se preferiamo, rispetto al quale lo spettatore di genere maschile si trovi posizione subordinata?
O, a volere essere severi e psicanalitici, la difficoltà a immaginare un uomo primo, cui seguano altri, come in un subentro dopo un abbondono che ferisca un orgoglio malato?
Con l’ascesa delle primedonne si configurano sia le fazioni di ammiratori che rivalità e veri e propri scontri tra dive.
Il più celebre e colorito “duello” di cui narrano le cronache e su cui in modo divertente il libro si sofferma, fu quello tra Francesca Cuzzoni e Faustina Bordoni, letteralmente venute alle mani, con unghie e parrucche coinvolte, sul palcoscenici, al cospetto di un esterrefatto Händel, in una recita di «Astianatte» di Bononcini.
Primedonne e potere, naturalmente androcentrico maschilista, si intrecciano e così Bonfadelli ci narra di Giuseppina Grassi, celebre allietatrice delle notti d’amore di generali prima di storiche battaglie campali: sarà così con Napoleone alla vigilia di Marengo, recatosi ad una recita di «La vergine del sole» dell’aversano Gaetano Andreozzi, e poi, per par condicio, con Wellington prima di Waterloo.
Sfogliando le pagine troveremo dive come Rosamunda Pisaroni, trionfante a dispetto di un fisico e di un volto segnati dal vaiolo.
Viceversa incontreremo la donna più bella del suo tempo, Lina Cavalieri, soprannominata «The Kissing Primadonna» per un bacio appassionato e, diciamo così, vero, scambiato in scena con Enrico Caruso.
Lina, però, aveva dovuto subire, a inizio carriera, le molestie e la violenza, a diciassette anni, dal suo maestro Arrigo Molfetta, che la lascerà incinta di un figlio che il bastardo, sì, l’aggettivo va rivolto al maschio stupratore e vigliacco e non, come invalso impropriamente, ai frutti di violenze e menzogne, non riconoscerà mai e cui Lina, pur serbando odio per quel cosiddetto uomo, non vorrà a sua volta attribuire paternità. Essere padre non attiene alla biologia, tanto meno all’abuso.
Lina Cavalieri, contesa e ammirata da principi e potenti del mondo, sarà al San Carlo nell’aprile del 1900 come Mimì in «La Bohème» di Puccini, in cui trionfa.
Morirà esattamente 80 anni fa a Fiesole, lì 8 febbraio 1944, sotto un bombardamento anglo-americano.
Ma un trattamento speciale ha meritato nel lavoro di Stefania Bonfadelli, una donna cui il melodramma e in qualche modo la stessa nazione Italia, sono debitori per quanto il soprano seppe fare sulla scena e soprattutto nella vita: Giuseppina Strepponi.
«Le vite delle nostre primedonne – esordisce Bonfadelli nel capitolo dedicato alla consorte di Verdi – seguono inevitabilmente anche la storia della condizione femminile nel nostro paese – e prosegue – le loro biografie sono inevitabilmente intrecciate a guerre, rivoluzioni, pestilenze e barricate».
Strepponi sarà la seconda moglie di un Verdi rimasto vedovo da giovane e il libro attinge anche ai diari della cantante, dando opportunità all’autrice di regalarci una riflessione molto intensa:
«Questi diari raccontano tanto, talvolta anche troppo, della sua vita privata. Non si leggono a cuor leggero, lasciano al lettore il rimorso dell’intrusione».
Condotta a Verdi in “concubinato” nella residenza di una provincialissima Busseto, Giuseppina soffrì le malevolenze, le critiche, i sorrisi maliziosi, i sospetti dei nuovi concittadini.
«Io non ho nulla a nascondere – affermò categorico il compositore – in casa mia vive una signora libera, con una fortuna che la mette al coperto da ogni bisogno. Né io né lei dobbiamo a chicchessia conto delle nostre azioni, e che in casa mia le deve pari, anzi, maggior rispetto che si deve a me e che a nessuno è permesso mancarvi».
Giuseppina, come ormai confidenzialmente ci piace chiamare, colpisce per quella che l’autrice acutamente definisce «ostinazione alla felicità».
Rimasta presto orfana di padre, Strepponi a diciassette anni deve badare a se stessa e ha dalla sua una bella voce e una spiccata musicalità.
A 23 anni mette al mondo il primo figlio, Camillo, avuto dall’impresario Cirelli che ha di suo, moglie e figli.
Qualche anno dopo, mentre è ancora, diciamo l’amante fissa di Cirelli, si innamora di un giovane tenore, Raffaele Monti il quale, appena appreso che lei attende da lui un figlio, con un ben consolidato protocollo da mascalzone, la lascia, mentre Cirelli, cui Giuseppina rivela la relazione con Monti e la propria attesa, la picchia selvaggiamente: il tradimento è consentito solo ai maschi, naturalmente.
Nascerà Giuseppa Faustina Sinforosa che Cirelli imporrà sia abbandonata anonimamente.
L’incontro con Verdi avverrà mentre Giuseppina è nuovamente incinta di Cirelli, ma la terza figlia nascerà morta.
Due anni dopo, nel 1841, nascerà la quarta figlia, di cui Giuseppina ignora o vuole tenere segreta la paternità: Adelina Rosa Theresia Maria Carolina, anche lei lasciata in affidamento.
Le nozze con Verdi si celebreranno solo nel 1859, dopo oltre un decennio di convivenza e la donna morirà a Sant’Agata nel 1897, quattro anni prima del marito, accanto al quale riposa per l’eternità a Milano nella Casa di Riposo che porta il nome del compositore. A ritroso nei secoli troviamo una primadonna di colore, quella Vittoria Tesi, detta «La moretta» cui spetterà il privilegio di inaugurare il Teatro di San Carlo nel ruolo di Achille, il 4 novembre 1737 in «Achille in Sciro» di Sarro su libretto di Metastasio. Non poteva mancare, la Storia lo imponeva, una primadonna operaia, figlia e riscatto di una nuova classe configuratasi con la Rivoluzione Industriale, una lavoratrice di filanda: Maria Zamboni, che viene al mondo in simultanea con le leghe operaie e contadine e i partiti dei lavoratori, nel 1891 a Mantova. - Il Melodramma, al pari delle sue dive, si apriva al proletariato e trovava in esso nuovi spunti e nuova linfa.
«Il teatro le sembrava un luogo più democratico della filanda dove nessuno poteva dire la sua – scrive Bonfadelli – la filanda aveva un padrone, il palcoscenico no».
Nessun padrone, nemmeno quel Toscanini che dirigerà Maria Zamboni e nemmeno Puccini, di cui il soprano mantovano interpreterà il ruolo di Liù, cantando le ultime note composte dal musicista nella storica prima rappresentazione di «Turandot» diretta da Toscanini il 25 aprile 1926 alla Scala.
E poi?
Maria Callas era appena nata, e Toti Dal Monte inaugurava una nuova concezione di primadonna, favorita dall’evoluzione del trasporto aereo: la Diva Globetrotter, condizione oggi diffusissima e che è stata per decenni propria della stessa Stefania Bonfadelli.
Stefania Bonfadelli: «L’Opera delle Primedonne» e l’ostinazione alla felicità
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