«Giulio Cesare in Egitto» il mito barocco al Teatro dell’Opera di Roma

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Sbarca al Teatro dell’Opera di Roma,  il Giulio Cesare in Egitto di Händel, che ricordiamo fu rappresento in questo teatro nel 1998, un nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma in coproduzione con il Théatre des Champs-Elysées di Parigi, dove è stato già rappresentato il 11 maggio 2022, e nuovamente sarà in programmazione a fine ottobre 2023 diretto da Gianluca Capuano e con Cleopatra Cecilia Bartoli, con l’Opera Leipzig, l’Opéra Orchestra National de Montpellier, l’Occitanie e Capitole de Toulouse.
Palpabile la curiosità del pubblico che ama l’opera barocca, il teatro è strapieno in tutti gli ordini, si sente l’emozione per la novità e la scoperta di uno dei capolavori di tutti i tempi, anche se non è l’unico, in quanto tante ed interessanti sono le opere barocche, sia di Händel così come di Rameau o Lully o ancora dei nostri Porpora, Vivaldi, Vinci che andrebbero rappresentate maggiormente nel nostro paese, così come  avviene all’estero, soprattutto in Germania.
Ci auguriamo un maggior coraggio nel programmare da tutti i teatri italiani, a maggior ragione dal Teatro dell’Opera, ad affrontare questo incantevole e impervio repertorio.

Händel impiegò un periodo abbastanza lungo per la composizione del Giulio Cesare, iniziata nell’estate del 1723 e completata a ridosso della prima rappresentazione assoluta al King’s Theatre di Londra il 20 febbraio 1724, notevoli modifiche furono apportate successivamente dal compositore, legate alla disponibilità degli interpreti, per esempio nella sua prima versione Cornelia era un soprano, Sesto un contralto e Tolomeo un tenore.
La stesura del libretto definitivo fu complicata per lo spostamento di arie da un atto all’altro o la riscrittura di alcune di queste, la prima rappresentazione al Teatro Costanzi di Roma fu il 26 dicembre 1955.

Il libretto affidato all’amico Nicola Francesco Haym, con il quale ebbe una proficua collaborazione, dal Teseo al Radamisto a Ottone Re di Germania, Flavio Re de’ Longobardi, prevedeva secondo la prassi dell’epoca la lavorazione su testi poetici, e per Giulio Cesare si prese spunto dal libretto di Giacomo Francesco Bussani già musicato da Sartorio per il Teatro di San Salvador a Venezia.
Il libretto è complicato sia per articolato da vicende ed intrighi amorosi, sviluppato dal regista, Damiano Michieletto che evidenzia la potenza spirituale, scavando nell’animo umano, la partitura ricca e variegata, frutto di un laborioso e irresistibile processo compositivo che esplode in un “trionfo” musicale diretta per l’occasione dal Maestro Rinaldo Alessandrini conscio di un bagaglio culturale della musica barocca non indifferente e peraltro riconosciuto.
Un allestimento essenziale e moderno scene di Paolo Fantin, e luci curate da Alessandro Carletti, una stanza bianca che rappresenta la stanza del potere, con un taglio nero che riporta all’aldilà, dove troviamo 3 parche, 3 giovani ragazze svestite che si muovono lentamente e curvamente, movimenti coreografici di Thomas Wilhelm che iniziano a tessere un filo rosso, dove il rosso rappresenta il sangue ed il filo è la trama, il destino della vita, che durante lo spettacolo cresce e diventa una pianta carnivora che avvolge tutto.
La cenere, così come le ossa, incombono sul palcoscenico, come riflessione della morte, e creano un’atmosfera concettuale e di riflessione che diremmo fin troppo lucubre.

Giulio Cesare, il grande generale, appare qui in giacca e cravatta, costumi moderni di Agostino Cavalca, anche Cleopatra ha un caschetto di paillettes, più glamour che egizia.
Il grande condottiero sembra spettatore degli eventi che si susseguono, gli viene portata la testa dell’amico-nemico Pompeo e da quel momento in poi il palcoscenico è intriso di sangue.
Raffaele Pe è bravo nel rendere il dramma introspettivo del protagonista di fronte all’incertezza e alla caducità della vita e risolve con efficacia le difficili arie che Händel ha affidato al ruolo del titolo.
Momenti di lirica introspezione anche per Cleopatra, cui ha dato voce il soprano Mary Bevan, disegnando  una regina smaliziata, in una mise in sottoveste gialla, che indugia sul senso della fine della vita, e in “piangerò la sorte mia” con grande drammaticità, osserva il tempo che inesorabilmente trascorre.
La moglie di Pompeo, Cornelia, è interpretata da Sara Mingardo dalla vocalità contraltile ben misurata; il personaggio viene mostrato in una  difficoltà ad elaborare il lutto, mentre  vede si imbatte nel  fantasma del marito.

Lo spettro è  in realtà  Tolomeo l’antagonista di Giulio Cesare, il quale vorrebbe vendicare la morte del padre ma che non sa gestire il suo potere, accecato  dal delirio di onnipotenza. Carlo Vistoli canta assai bene ed affronta con disinvoltura le difficoltà della scrittura händeliana mostrando salda tecnica e omogeneità nel passaggio dal registro grave ad acuto. Il suo Tolomeo è talvolta sensibile ed introverso altre capriccioso e tormentato, assiste assieme alla sorella alla fine della sua dinastia. Sesto Pompeo è interpretato dal controtenore statunitense Aryen Nussbaum Cohen, bene in “Svegliatevi nel core” ed in “Cara speme” eseguita con infinita dolcezza, incantano il pubblico, rispettando la “teoria degli affetti” che vuol esprime musicalmente una varietà di emozioni a seconda degli umori e temperamenti.
Completano il cast Achilla Rocco Cavalluzzi, Nireno di Angelo Giordano, e Curio Patrizio La Placa.
Pistole, coltelli in scena, sono provocazioni che cercano una reazione positiva del pubblico, soprattutto in questo momento storico. Coltelli puntati verso la platea, anche se nascosti da un telo trasparente, immancabilmente ricordano l’episodio tragico del 2015 al Bataclan di Parigi. Il Teatro perde però la dimensione magica e la funzione “educational”  quindi, seppur godendo di immensa musica, e di uno sforzo rappresentativo non indifferente, un’aurea di tristezza e una meditazione sulla morte e sul destino è inevitabile, ma forse necessaria.

Gabriella Spagnuolo

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