«Stizzita per la scemenza dei suoi stessi oracoli e per l’ingenua credulità dei Greci, la sacerdotessa di Delfi Pannychis XI, lunga e secca come quasi tutte le Pizie che l’avevano preceduta , ascoltò le domande del giovane Edipo, un altro che voleva sapere se i suoi genitori erano davvero i suoi genitori, come se fosse facile stabilire una cosa del genere nei circoli aristocratici, dove, senza scherzi, donne maritate davano a intendere ai loro consorti , i quali peraltro finivano per crederci, come qualmente Zeus in persona si fosse giacinto con loro».
Così inizia il racconto «La morte della Pizia» , piccolo capolavoro di ingegno e ironia, di Frederich Dürrenmatt (Berna 1921-Neuchatel 1990), in scena dal 10 al 15 ottobre al Teatro Vittoria di Roma, nell’adattamento teatrale di Patrizia Patrizia La Fonte e Irene Lösch, con la regia di Giuseppe Marini, adattamento che riesce mirabilmente a conservare la leggerezza del testo e nello stesso tempo la sua complessità.
Come in un “conte philosophique” il mito greco di Edipo viene rimesso in gioco con un intento nuovo: da un lato il rovesciamento critico delle idee ricevute, dei dogmi e delle tradizioni in nome della ragione, ma dall’altro la messa in discussione della ragione stessa, evidenziandone i limiti e minando i suoi fondamenti di giudizio. Il tratto stilistico è il gioco, sostenuto dalla brillante recitazione di Patrizia La Fonte e Maurizio Palladino, lo scherzo.
Tuttavia al contrario di una narrazione dove al centro c’è un unico fatto, racchiuso in un certo spazio e tempo, il cui obiettivo è quello di presentare un qualche assioma morale e dunque una verità, qui tutto questo manca e attraverso delle menzogne intenzionali non si vuole raggiungere una verità ma risvegliare un senso critico.
Se altrove la trama della vita degli uomini si dispiega attraverso il racconto tragico e assurdo di una successione di crimini, della quale la narrazione si fa spettatrice e essa stessa cerca di diventare rimedio, nel racconto di Durrenmat invece la ragione traccia solo delle possibili soluzioni, in una beffa disincantata dove i protagonisti si prendono gioco della storia e ne diventano vittime, in un racconto che parte da lontano ma in modo circolare ritorna al punto di partenza senza dare risposte.
Tutto nasce da un oracolo fatto a casaccio dalla Pizia, annoiata e stanca della credulità degli uomini, al giovane Edipo, ma questo vaticinio si innesta su una serie di eventi ingovernabili e imprevedibili accrescendo le drammatiche conseguenze e inconsapevolmente modificando la portata nelle vicende umane interessate.
Così Pannychis, sacerdotessa Pizia alla fine dei suoi giorni, personaggio che Patrizia La Fonte interpreta a tratti a volte sardonici altri poetici, ma sempre dissacranti, su insistenza del sacerdote Merops XXVII, che avidamente sfrutta la sua attività divinatoria, accetta di incontrare il potente Tiresia per confrontarsi sugli avvenimenti di cui entrambi hanno in qualche modo creduto di essere gli artefici.
Attraverso l’evocazione di quelle che appaiono le ombre delle vittime dei loro responsi, Edipo, Giocasta, La Sfinge, comprendono son stupore che nulla era o è come si pensava, che la loro conoscenza è fallace e fragile, annientata da eventi imprevedibili e inimmaginabili, abbandonati alla deriva e al caso, che restituiscono una verità confusa.
Saranno piuttosto le nostre aspettative a condurci ad una verità, quella che probabilmente ci tranquillizza nelle nostre certezze, ma sempre come effetto di un cortocircuito che ci scopre impotenti e imbarazzati, spaesati di fronte a qualcosa che smentisce le nostre convinzioni.
Tra responsi ora folli ora malevoli, il dubbio aumenta e la Pizia e Tiresia, di fronte ad una dimensione che scavalca ogni profezia e ogni piano, esauriranno il loro compito per sempre, mentre Delfi si inabissa in un plumbeo mattino. Non vi è traccia di verità e di giustizia, solo invenzione di intenti , tentativi di uomini che cercano un loro vantaggio e raccolgono sventure, nessun momento divino e neppure una logica razionale.
Tutto è demone , come i nostri giorni disperati , mentre assistiamo silenziosi ad una delle più mostruose stragi della storia dell’umanità, illudendoci di addurre motivazioni e ragioni, ma in realtà muovendosi secondo schemi mentali che ci portano, quando accade qualcosa in contrasto con le nostre credenze, a chiudere gli occhi e a venire a patti con la nostra coscienza, la cosa più elastica che esista al mondo. Quest’ultima considerazione diventa chiara ed evidente rispetto a quello che leggiamo o apprendiamo dalle cronache dei conflitti di cui siamo spettatori e purtroppo, al contrario di quanto avviene a teatro, non basterà un’amara risata per salvarci dall’ angoscia.
L’immagine di Apollo, archetipo della razionalità, colui che riporta ordine nel caos, che domina all’inizio al centro della scenografia di Alessandro Chiti, è infine solo la quinta dove si nascondono le ombre, testimonianza di un mondo sommerso e incomprensibile.
Belli i costumi di Helga H. Williams e il lungo peplo rosso, in cui la sacerdotessa si avvolge inquieta, diventa il vuoto simulacro di una regalità perduta.
Dora Iannuzzi
Foto La Pera