Dicono che porti male, sarà per questo che non era in cartellone a Bologna da ben quarant’anni. Ed è un vero peccato, considerando che La forza del Destino è tra i componimenti più affascinanti di Giuseppe Verdi. A leggere del forfait di Roberto De Candia per un’indisposizione dell’ultimo momento, qualche domanda ce la siamo pure fatta. Che porti sfiga sul serio? Chissà se, spente le luci in sala, qualcuno non ne abbia approfittato per il più classico dei gesti apotropaici.
Pruriti che omnia mala fugat a parte, quel che abbiamo visto e ascoltato in sala è stato più che piacevole. Molti i punti di forza e pochi i nevi per questa produzione originale del Teatro Comunale di Bologna con il Teatro Regio di Parma, Teatro Massimo di Palermo e Opéra Orchestre National Montpellier Occitaine.
Sul podio, a maneggiare materiale così pericoloso, Asher Fisch. L’impressione è che non abbia voluto sfruculiare la sorte, rispettando la musica senza aggiungere inutili personalismi. Non abbiamo nelle orecchie molti riferimenti musicali recenti, ma l’idea è che la bacchetta abbia diretto con matura prudenza, quasi circospezione.
Quando si parla della Forza del destino la cautela sembra non essere mai eccessiva.
Infatti, a partire dalla prima di San Pietroburgo, rimandata di circa un anno a causa di un malanno del soprano designato, una lunga catena di sfortunate disavventure hanno falcidiato le varie recite fino ai giorni nostri. Della serie “Non è vero ma ci credo”.
Malasorte a parte, la scelta prudente del direttore non esalta ma non sembra del tutto criticabile. Già dalle celebri quattro note della sinfonia iniziale, proposte dagli ottoni, è chiara la potenza evocativa di tutta la partitura che trova pieno compimento musicale nelle due melodie che seguono (quella del destino ed il tema del pentimento di Don Alvaro). La musica è massiccia e aggiungervi qualcosa potrebbe essere o inopportuno o sublimare il risultato. Nel dubbio, meglio non rischiare.
Anche la regia è sostanzialmente asciutta, non nel senso di essenziale, ma nell’intenzione di non ingrassare lo spazio scenico di elementi alieni alla storia. La scelta, tutto sommato, risulta vincente e permette di sfruttare bene gli spazi del Comunale Nouveau.
Di certo l’altezza ridotta ed una profondità limitata dello spazio scenico non aiutano a formulare creatività.
Qualcosa mi dice che al Comunale Nouveau ci dovremo abituare a vedere sempre più spesso fondali proiettati. Ma lo spazio è quel che è e la tecnologia risolve un bel po’ di problemi.
Direzione e regia, seppur percorrendo i binari dell’assoluta medietà, hanno il merito di far suonare bene l’orchestra e di far risaltare i cantanti. Veramente buona la prova di Erika Grimaldi, nuova al ruolo di Lenora, che si esalta quando può sprigionare tutta la sua potenza nell’estremo alto del registro a fronte di qualche sbavatura nella parte più grave. Ha il merito di compensare la vaghezza registica con grande personalità.
Non è l’unico esordio. Il Don Carlo di Gabriele Viviani, nuovo al personaggio, ha un buon canto, sebbene non eccella in personalità. Ci può stare, anche considerando, il non facile ruolo. Buono anche il Fra’ Melitone last minute di Sergio Vitale. Robusta la prova di Roberto Aronica, già pratico del ruolo di Alvaro. Soffre un po’ di voce nella parte più bassa del registro e talvolta gli scappa l’acuto nei passaggi più lunghi e complicati. Ma, nel complesso, sono dettagli perdonabili. Non in formissima Nino Surguladze, che lascia qualche punto sull’acuto ma ne guadagna altri per l’interpretazione attoriale. Bravi tutti gli altri: Rafael Siwek nel ruolo del Padre Guardiano, Orlando Polidoro e Cristian Saitta, rispettivamente nei panni del Mastro Trabuco e del Marchese di Calatrava. Come consuetudine, ottima la prova del Coro diretto da Gea Garatti Ansini, esaltato dallo stile Grand Opéra.
L’opera è sì dannatamente lunga ma è stata proposta in modo molto piacevole. Non c’è -ahimè – l’effetto wow, ma contro la sorte non ci si scontra. Se è mancato un po’ di coraggio in alcune scelte, soprattutto di direzione e regia, l’importante è aver messo in tasca lo spettacolo.
Ciro Scannapieco
Foto Ranzi