C’è qualcosa di ancestrale in un pianoforte al centro di una sala, come un altare che aspetta il celebrante affinché si compia il rito mistico.
88 tasti, che combinati secondo un codice, sono capaci di incantagione.
Ed è quel che ci si aspettava da Saleem Ashkar di Nazareth lo scorso 27 Marzo all’Auditorium Manzoni di Bologna: essere incantati.
La musica di Beethoven, su cui è imperniato il programma, è l’inviluppo che tange qualsiasi suono sia venuto prima o dopo. È come un inghiottitoio in cui tutto sembra convergere per poi essere risputato fuori trasfigurato. Soprattutto nelle sonate che, nella loro eleganza formale, sono brani misteriosi: sentimentali ed epici, tenui e forti allo stesso tempo. Il tutto musicale che esprimono racconta ogni cosa; come uno specchio che riflette quadri diversi a seconda dell’immagine che gli si pone innanzi, rimanendo sempre lo stesso oggetto.
Affinché il rito si compia, l’officiante deve riuscire a connetterci con quel mondo.
Di certo le aspettative erano molto alte, tenendo da conto la gran qualità a cui ci ha abituato la Fondazione Musica Insieme, i cui concerti sono garanzia di qualità musicale all’interno di un programma che rifugge alla banalità.
La prima parte del programma è beethoveniana.
Le due Sonate (n.5 n.26) sono interpretate in modo austero, rifuggendo qualsiasi manierismo protoromantico, scelta che frena – almeno in parte- la forza melodica delle partiture a favore di un certo rigore complessivo.
L’approccio non va confuso con mancanza di profondità emotiva, anzi. L’interprete ci porta nel suo mondo verticale (anche per postura) che pone una netta distanza tra Ashkar ed un certo pianismo modaiolo dai contrasti emotivi troppo accesi.
La seconda parte del programma ci ha lasciato, di primo acchito, spiazzati. Sarà che il pianista è celebre per le sue incisioni beethoveniane per conto di Decca, sarà che l’impostazione espressiva della prima parte era piuttosto rigorosa, ma non sapevamo cosa aspettarci da un repertorio romantico. Sembrava non starci, se non per compiacere il pubblico in sala. E – non lo nego – questo senso di smarrimento ci ha tormentato fin quando non ci siamo sturati dalle orecchie il tappo della consuetudine.
L’interpretazione della Kreisleriana di Robert Schumann,infatti, è piuttosto lontana da ogni riferimento discografico. Le otto fantasie interpretate dal pianista israeliano, sembrano esuli in fuga su una zattera; abbandonano l’isola romantica per ritornare a casa, a Beethoven per l’appunto. Probabilmente non è la più ortodossa delle interpretazioni, ma assolutamente coerente nel contesto formale ed emotivo in cui è inserita. Stesso dicasi per la bella terza ballata di Chopin e per il notturno che segue come Bis.
Se sia un’interpretazione congrua o no è solo musicologia da salotto. Entrati nel mondo espressivo di Ashkar tutto appare coerente. Il moto centripeto con cui si muove il programma riconduce tutto ad un unico punto di convergenza. Non sarà consueto, di certo è spiazzante ma è congruo. Se è vero che, talvolta, un approccio inusitato apre a nuove riletture, anche stavolta abbiamo imparato qualcosa. Non mancheranno in futuro recital chopiniani più modaioli.
Siamo di fronte ad un meticoloso artigiano del suono e ad un grande artista. Saleem Ashkar lucida ogni nota con pietra pomice, fino a farla scintillare. Ogni singolo suono risplende di fulvida lucentezza. È un susseguirsi di perfette biglie sonore, l’una dietro l’altra, come in una cascata di perle che rimbalza sul pavimento. Ogni nota è intellegibile, legata alla precedente e alla successiva come se nessuno di quei rimbalzi impulsivi fosse dato al caso.
Non c’è nulla di casuale in Beethoven come non c’è nulla di casuale in Ashkar.
La sua cifra stilistica rifugge ogni sensazionalismo impressionista a favore di un equilibrio tonale, timbrico ed espressivo che non conosce mode. Potrà sembrare rigoroso ma la sua musica è pura, senza tempo, come una perla, rara. Chi lo ascolta ci si troverà riflesso dentro.
Ciro Scannapieco