Su di una bella scena crepuscolare con figure stilizzare un uomo e la sua valigia.
Comincia a correre e quando si ferma lo riconosciamo: è Willy Loman, sì ancora lui, il commesso viaggiatore di Arthur Miller, rientrato in anticipo a casa senza aver concluso il consueto giro.
Solo sul palco Marco Cantieri veste i panni dell’ormai anziano venditore che da sempre ha inseguito il successo, quello status che il denaro sancisce, quella felicità pagata a rate per comprare un tetto, fa nulla se son quattro mattoni grigi, se “per guardare le stelle bisogna torcere il collo” e se il giardino è arido e le peonie non crescono più. Dopo tanto affanno è l’ora dei bilanci: Willy è un perdente, si sente vecchio e senza amici, non conta nulla, è terrorizzato all’idea di non poter “portare i soldi a casa”, la svolta non è arrivata, i figli Happy e Biff sono vacui e deludenti e la moglie Linda devota e consolante non compariranno mai in scena. Eppure è con loro che Willy interagisce in una New York degli anni quaranta del Novecento, adesso è stanco, ha viaggiato tanto per la provincia, sarebbe tempo di raccogliere il seminato, di serenità, ma ancora l’ultima speranza infranta: arriva il licenziamento al posto dell’agognato lavoro di ufficio. Tra ricordi e flash-back, scanditi da mini assoli di batteria a rievocare atmosfere jazzate, il personaggio acquisisce la consapevolezza del proprio fallimento esistenziale come uomo, padre e marito e il riscatto di questa vita ha un prezzo, ventimila dollari in contanti, che l’assicurazione rimborsa in caso di morte, ultimo e disperato gesto d’amore per i suoi cari. “Dopo migliaia di chilometri uno si accorge di valere più da morto che da vivo”.
Un testo ricchissimo di chiavi di lettura antropologiche, politiche, familiari, metaforiche che fotografa una società e i suoi modelli che definire americani oggi non ha più senso, in realtà Willy Loman lo si può trovare in ogni nazione e in ogni tempo. Così come i suoi vicini, il principale che non esita a sbatterlo in strada dopo anni di sacrifici, si sa “gli affari sono affari”, il mitico fratello maggiore Ben che si è arricchito con pochi scrupoli e molta fortuna.
Trasformata in un monologo di circa un’ora dallo stesso interprete della compagnia Teatro Armathan di Verona la scrittura mantiene intatta il suo spessore drammaturgico e sebbene la messa in scena, molto accurata, si avvalga di pochissimi elementi, la resa complessiva non dispiace, anche se non pienamente coinvolgente come nella versione originale. Attori giganteschi si sono misurati con questo personaggio pieno di sfaccettature che non contesta un sistema (discutibile?), ma che con il suicidio assicura alla famiglia quel benessere materiale che ha sempre cercato (alla fine ce l’ha fatta). Marco Cantieri ne ha efficacemente sottolineato la stanchezza, lo spaesamento, il senso assoluto di solitudine e di impotenza rispetto a quello che sarebbe dovuto essere e non è, la fragilità, l’umiliazione di che non arriva a pagare la rata del mutuo ed è costretto ai prestiti, l’amarezza degli sconfitti, modulando i toni e la gestualità, seguendo il ritmo dettato dalla vicenda densa di coprotagonisti che sono semplicemente evocati. Appropriato il “commento musicale” creato ad hoc dal batterista Antonio Sanchez.
Applaudito e visto nell’ambito del Festival XS a Salerno il 12 marzo 2023 con la regia di Adriana Giacomino e Franca Guerra.
Dadadago