«A lo stesso punto, però a n’ata parte» Storie di Zuorri e di Teatro

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Parte uno spettacolo ricco di contaminazioni e di espliciti rimandi a testi fondamentali nella storia del teatro, da Shakespeare a Beckett, passando per il grande Eduardo, che non nasconde nemmeno i suoi debiti culturali con la Commedia dell’Arte e che si inserisce in un alveo di sperimentazione linguistica volta al recupero della ricchezza dialettale dell’Alta Irpinia.
Tutto questo accade, e non solo, nella commedia buffa a firma di Paolo Capozzo “Allo stesso punto, però a n’ata parte” andata in scena il 19 febbraio 2023 al Teatro Genovesi, nell’ambito del Festival “Teatro XS” Città di Salerno, con la Compagnia Co.C.I.S. Teatro 99 Posti di Avellino e la regia di Gianni Di Nardo.
Sul palcoscenico Compà Prisco interpretato dallo stesso Paolo Capozzo e Compà Mostino da Maurizio Picariello, due “Zuorri” secondo il termine in uso, fino alla metà del ‘900 in terra irpina, che indicava la povertà di contadini analfabeti, dediti soltanto a coltivare le terre dei padroni, eternamente affamati e senza null’altro possedere che la forza delle loro braccia. Le due maschere in scena, estremamente tragicomiche, strappano allo spettatore il sorriso, ma anche una sorta di umana comprensione, in questo loro spaesato risveglio in un teatro deserto. Forse nella pandemia è accaduta la stessa cosa, le attività di intrattenimento hanno taciuto ed occorreva reinventarsi; in un comune clima di sospensione surreale anche i nostri due non sanno più chi sono e capiscono che bisogna cercare nuove ispirazioni e modalità di espressione. Il teatro, in verità, vive di e per il pubblico dal vivo, sta di fatto, però, che i nostri due “Zuorri” non hanno più un loro pubblico e non vengono interpretati più da nessuno. L’oblio equivale a morire, ma Mostino e Prisco sono tutt’altro che pronti a scomparire e riescono a trovare nuova linfa vitale nei copioni impolverati rinvenuti in un vecchio baule, da qui il tentativo di misurarsi, in maniera impacciata ma anche con guizzi di grande generosità, con delle pagine teatrali divenute oramai immortali. L’avventura però non è semplice per i due villani, alquanto goffi e maldestri, ma che di questa inadeguatezza ne faranno banco di prova di certe capacità sceniche ed attoriali che i due hanno.
I copioni intanto illuminano la scena, attraverso pannelli-installazione di alberi stilizzati che sono il progetto scenico ed il disegno di luci voluto dal regista Gianni Di Nardo. Questi alberi si accendono ogni volta che i due si cimentano con un nuovo copione teatrale, non riveleremo le opere che sono tutte celebri e ben rappresentate, copioni che sono evocati ogni volta da un mobile spiritello interpretato da Vito Scalia
che veste i panni di Pozzo, Puck, Nennillo, Tebaldo e il Frate. Personaggi che evocano il grande repertorio del teatro mondiale, così lontano ed estraneo ai due “Zuorri”, eppure mai troppo lontano ed estraneo come sembra apparire. L’autore ricorre anche ad un grammelot sonoro di presa comica immediata, fatto di suoni e di termini dialettali irpini, in un’operazione che apertamente dichiara il debito culturale con lo Zanni di “Mistero Buffo” di Dario Fo, il contadino affamato delle valli bresciane e bergamasche reinventato dalle piroette linguistiche ed espressive di quell’insuperato Maestro.
Salva ovviamente la diversità di intenti e risvolti teatrali, il tutto è funzionale ai rabberciati e commoventi tentativi dei nostri di essere all’altezza delle nuove interpretazioni.
Quel che viene fuori, comunque, oltre l’apparente fallimento, è la voglia di recuperare forza nella propria tradizione e di mettersi in gioco, nonostante ai nostri due sembri di essere sempre “a lo stesso punto” anche se da un’altra parte.

Tra sorrisi e apprezzamenti per la duttilità espressiva degli attori, impegnati in mimiche facciali ed espressioni meta-linguistiche stranianti ma molto comunicative, lo spettacolo compie il suo magico itinerario recitativo, fino a quando anche l’ultimo dei tentativi di interpretare l’ennesimo copione si spegnerà. E allora i due “Zuorri” si troveranno in un quadro finale senza alcun copione da interpretare, dove sarà la commedia buffonesca ed istrionica a soccorrerli, quella che si affida alle capacità di improvvisazione degli attori e che riesce ad incuriosire, a commuovere, a far sorridere e ad affascinare il pubblico. Lo spettacolo, grazie alla ricerca ed alla sensibilità autoriale, all’indubbia e camaleontica abilità degli interpreti ed al riuscito allestimento scenico, ottiene tutto questo. Andando, trasversalmente e per metafora, anche oltre il farsesco e la commedia dell’arte stessa, per approdare in un luogo poetico, quello della scena finale in cui Mostino e Prisco riescono a scrutare il cielo e le stelle, scena che suggerisce una riflessione sul senso dell’esistenza, sui rapporti tra l’essere e l’apparire, tra la finzione e la realtà, tra la vita e la morte, e tutto questo non è da poco.

Marisa Paladino

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