La 14esima edizione del Festival Nazionale “Teatro XS” Città di Salerno, diretto da Enzo Tota presidente della Compagnia dell’Eclissi, in collaborazione con l’I.S.S. Genovesi-Da Vinci, inaugurata il 5 febbraio scorso al Teatro Genovesi ha registrato, ancora una volta, il tutto esaurito di abbonamenti e di pubblico presente.
In scena la Compagnia Cattivi di Cuore di Imperia con lo spettacolo “Il raccolto” di Giorgia Brusco, un dramma familiare che ruota intorno alla figura di una madre, divisiva oltre che distruttiva, che segnerà inesorabilmente il destino delle figlie.
Le due sorelle protagoniste della pièce, Beatrice ed Anna, sono state magistralmente interpretate, rispettivamente, da Chiara Giribaldi e Giorgia Brusco, la regia è di Gino Brusco. Si diceva di un testo impegnativo, sia per le tematiche affrontate che per la natura dei personaggi in scena, due donne a vario titolo spezzate, con traumi familiari inespressi, pronti a divampare in occasione della scomparsa della madre, donna dispotica e manipolatrice. Le due sorelle, in verità, fin da ragazzine hanno indoli molto diverse, lo si capisce nei veloci flashback di Beatrice, la maggiore più incline, forse anche per solitudine di vita, al ricordo. E a dar vita alle sorelle adolescenti due giovani interpreti Federica Chichi e Ilaria Pettinelli, ben calate nei personaggi, una giudiziosa e l’altra ribelle, apprezzabilissime sia per la loro freschezza interpretativa che per il disvelamento delle differenti personalità. Beatrice è la più assennata e legata alla famiglia, mentre Anna, la più piccola, è animata da una grande passione per la fotografia, scalpita per uscire di casa al più presto e anela fotografare le innumerevoli curiosità del mondo. Il temperamento di ognuna ne segnerà un diverso destino e la separazione di vent’anni tra le due avrà un deflagrante impatto nell’incontro in occasione della morte della madre.
La scena iniziale, intanto, è un interno di una casa non troppo illuminata, una dismessa Beatrice, sia negli abiti che nei toni, cerca di rintracciare la sorella Anna per comunicarle la dolorosa scomparsa, ma può lasciare soltanto il messaggio alla segreteria telefonica.
La donna trasmette dolore e sofferenza, sentimenti che in un crescendo esploderanno in questo difficile incontro, una dura confessione del proprio fallimento che è anche un feroce ultimo atto di accusa e di colpevolizzazione nei confronti della sorella minore. Anna che arriva in ritardo, dopo il funerale, invece non sembra particolarmente rattristata nel non avere salutato la madre per tempo.
Le due sorelle già esteriormente sono molto diverse, la maggiore nella sua vestaglietta da casa senza pretese, l’andatura rallentata come il tono della voce, lo sguardo un poco fisso che rivela, oltre il dolore, la rassegnazione. L’altra, invece, con pantaloni attillati e maglietta che le mette in evidenza il seno rifatto, si muove con sicurezza e carattere, ha il tono di voce tutt’altro che mesto ed è pronta a difendere la sua scelta di andare via da casa a sedici anni, aiutata economicamente e materialmente da uno zio. L’amato zio che tanto le voleva bene, questo nell’edulcorata visione di Beatrice, quando invece la verità è di tutt’altra natura e l’abuso sembra essere stato il prezzo di quest’aiuto.
Le due interpreti hanno un incedere recitativo sempre più affilato, a tratti crudele, coerente con un testo che (co)stringe Beatrice a recriminare ed accusare la sorella di egoismo, avendola abbandonata al dispotismo della madre e che (ri)dimensiona Anna, da donna apparentemente emancipata e di successo, in una persona preda di profondi vuoti interiori e che non ha fatto mai i conti con la mancata accettazione materna. Una madre che si è negata ad ogni richiesta di incontro da parte della figlia minore e che ha sottratto la corrispondenza di Anna alla sorella maggiore, impedendo ogni riappacificazione tra le due. La condivisione di questa inaudita violenza materna, per entrambe, è motivo di ancor più forte dolore, anche se le due sorelle scontano ognuna un destino di sofferenza e di inquietudine. Beatrice ha infatti rinunziato alla propria vita per accudire la madre, scontando il perbenismo ipocrita del paese ed agendo per un senso del dovere che annulla ogni capacità di scelta, mentre l’altra, forse rifuggendo da quella piccola comunità claustrofobica e dai doveri familiari vissuti come imposizione, ha affermato la sua personalità ma ha operato anche una fuga, non pacificandosi mai con quella mancata approvazione della madre, sempre cercata e mai perdonata. Anna, donna di successo, almeno in apparenza, emancipata e bisessuale, non ha mai affrontato questo nodo irrisolto, condannandosi alla perenne inquietudine. Il testo va oltre il dramma dell’infelicità che le famiglie possono generare se dominate dall’ipocrisia e dal dispotico esercizio dei ruoli, nulla di nuovo sotto il sole da quella invettiva violenta di gidiana memoria “Famiglie, vi odio! Focolari chiusi; porte sprangate; possessi gelosi della felicità”.
Emergono, infatti, anche altri temi come la dirompenza delle scelte e degli orientamenti sessuali, rispetto ai quali l’attrito con la mentalità più tradizionale è ancora di grande attualità, l’allungamento delle aspettative di vita ed il problema della cura e dell’assistenza degli anziani, nonché il giudizio sulle scelte che antepongono la propria realizzazione alle aspettative della famiglia. Insomma spunti di riflessione e non risposte certe.
La recitazione sempre coerente con i personaggi ed il coinvolgente gioco dialettico hanno convinto e sorretto il drammatico crescendo interpretativo, fino alle crudeltà ultime di una Beatrice che urla il prezzo pagato per la sua debolezza caratteriale e per la sua subalternità all’autorità genitoriale, cioè una malattia incurabile e senza scampo, mentre Anna non riesce, nemmeno di fronte a questo dramma, a trovare un pur comprensibile afflato ed un sentimento di vera sorellanza.
Non è il giudizio morale che serve, sembra comunque suggerirci l’autrice del testo, semmai la rappresentazione di vite piene di dubbi e di mancanze che ci avvicinano al dolore dell’esistenza, che non viene risparmiato neanche dove sembra esservi il successo e la realizzazione; e forse un monito, quello di rispettare sempre la storia di ognuno, semmai conoscendola e comprendendola nel profondo, perché le vite sono sempre il frutto di una semina che non sempre garantisce un buon raccolto. L’indiscutibile bravura delle interpreti, intense e coinvolgenti, sempre all’altezza di questo testo spietato e amaro, come la capacità di creare nello spettatore uno slancio empatico che va oltre le apparenze, ha trovato un ulteriore cifra di successo nell’abile ed assecondante regia di Gino Brusco, il cui bagaglio di esperienza e di sensibilità scenica ha reso coerente e comunicativo tutto l’insieme, sia nell’unità della rappresentazione che nella dimensione del ricordo e del passato, grazie al sapiente e piacevole uso del flashback. Un inizio eccellente, non c’è che dire!
Marisa Paladino