Sono passati solo tre anni e la Butterfly è di nuovo a Bologna. Fu l’ultima recita prima di un periodo di stop forzato.
Quel 22 Febbraio, infatti, mezza Italia iniziava a fare i conti con il Covid-19, mentre l’altra pensava ad una mera esagerazione mediatica. Avevano ragione i primi. Ci volle un anno e mezzo prima di rientrare in sala Bibiena. Nemmeno il tempo di (ri)farci l’abitudine ed ecco un nuovo colpo di scena. Con il comunale chiuso per lavori, la programmazione si è spostata in zona fiera dallo scorso Novembre.
Stesso titolo e tante, troppe trame parallele. Sintetizzandole: La fanciulla del Sol Levante profetizza che non metteremo piede nella splendida struttura di Piazza Verdi per un bel po’. Che porti sfiga? Tenderei ad escluderlo, anche vedendo il bellissimo nuovo spazio del Comunale Nouveau che permetterà a tutti i melomani in terra felsinea di continuare ad alimentare la propria sete di musica.
Non faremo il gioco del meglio o peggio. Confrontato con il Comunale, qualsiasi nuovo spazio sfigurerebbe. Sarebbe come legare qualcuno ad un palo per prenderlo a schiaffi.
Cambiando prospettiva, invece, la sala è adeguata, bella e permetterà di sostenere l’attività del Comunale per i prossimi (speriamo pochi) anni. Il primo impatto con il nuovo teatro può lasciare un po’ spiazzati. Il – foyer – è una sorta di lungo e ampio corridoio che porta alla sala, percorrendo guardaroba e angolo ristoro.
Dopo il punto di controllo del titolo d’acquisto, però, cambia tutto. I colori virano su tinte scure mentre la scala che passa sotto le ultime file della platea ci porta in sala. Sbucati dal sottopasso, ecco la botta: una bella platea digradante apre ad una prospettiva ampia dal notevole impatto bi-cromatico. Il verde acido delle sedute e dei rivestimenti laterali emerge dal contesto antracite creando un piacevole colpo d’occhio.
Ovviamente, rispetto ad un consolidato teatro d’opera, restano alcuni limiti strutturali, come la profondità ridotta del palcoscenico contro cui registi e scenografi dovranno fare i conti per un bel po’. Ma veniamo alla recita.
La scelta di Gianmaria Aliverta va nella direzione del compitino. Se il suo intento era non osare per non sbagliare, qli è ampiamente riuscito. La sua Butterfly non sarà ricordata né per scene, né per regia.
A leggere il libretto – si ha l’impressione che il risultato non soddisfi nemmeno il suo demiurgo che quasi disconosce il proprio lavoro: «Non posso certamente definirla una mia produzione poiché ho dovuto adattare il mio estro artistico a un qualcosa di già esistente, che doveva per di più adattarsi a questo nuovo teatro che verrà consegnato a prove già iniziate. Non c’è nessuna riscrittura drammaturgica, anche se chi mi conosce sa che generalmente prediligo alla riscrittura un riadattamento temporale».
Per carità, l’astrattismo scenico è essenziale e funzionale. Uno sfondo monocromatico che varia tonalità a simulare il cambio di stagioni e di ora, abiti tradizionali ed una capanna di bambù al centro della scena. Non c’è altro.
Avendo ancora negli occhi la regia affilata di Michieletto del 2020, questa sembra fin troppo svogliata. Senza infamia e senza lode ma – considerando tutte le incognite – poteva andare peggio. Almeno non ci sono proiezioni.
La regia non avrà ucciso il titolo ma l’ha lasciato naufrago in mezzo al mare. Fortunatamente un primo salvagente è arrivato da un Daniel Oren che, se avessimo tenuto gli occhi chiusi, quasi non lo avremmo riconosciuto. Non sono mancati i soliti momenti accesi e vigorosi che hanno reso il direttore israeliano celebre nel mondo, ma sono stati alternati a tenui acquerelli musicali. Il risultato è un’escursione dinamica importante e inaspettata. Vero è che dinamiche più forti avrebbero reso difficile la vita ai cantanti. La nuova sala non suona male, ma ha un’acustica che tende ad inghiottire le voci, soprattutto in certi registri e timbri. Che sia stata necessità, ispirazione o ancora più fine sensibilità artistica, l’Oren dal tocco leggero non è certo dispiaciuto.
Il cast vocale sovverte il giudizio morale della trama. L’americana Latonia Moore dopo un avvio complicato si porta a casa la parte di Cio-Cio-san ed anche qualche pensiero. In alto, al netto di qualche rugginosità, la voce funziona. Il timbro è bello e argentino, peccato che sui registri più bassi si sporchi sovente con l’acustica di sala. Vogliamo rivederla altrove.
Le preferiamo il cattivo. Il Pinkerton di Luciano Ganci è strepitoso per interpretazione, vocalità, dizione e intellegibilità del cantato. Cosa volere di più? Tutto sommato buona anche la prova di Aoxue Zhu nei panni di Suzuki. Se la dizione non è sempre chiara, il timbro e l’intonazione ne evidenziano il talento.
Bravi anche i reduci della Butterfly pre-covid: Dario Solari, nei panni di Sharpless e Cristiano Olivieri che rende giustizia al sensale Goro.
Per il resto adeguati un po’ tutti: lo Yamadori di Paolo Orecchia, Luca Gallo nei panni del commissario e lo zio Bonzo di Nicoló Ceriani.
C’è anche spazio per Kate, interpretata da Claudia Ceraulo. In questa lettura registica (ma anche nella precedente) è quasi una sorta di novella Lady Macbeth che istiga il marito per strappare il figlio a Cio-Cio-San. Sinceramente è quel tocco di sale in più che rischia di rovinare la minestra. Se ne poteva fare a meno.
In definitiva è un inizio dignitoso per l’Opera Nuveau. Non sarà uno spazio perfetto ma è gradevole e funzionale. Di certo riadeguare l’intera programmazione ai nuovi ambienti non sarà facile. Registi e scenografi non si annoieranno nella risoluzione di questi nuovi dilemmi enigmistici. Mettiamo anche in conto qualche sbavatura nelle produzioni a venire; mai come ora, l’importante è esserci.
Ciro Scannapieco
Foto Andrea Ranzi ©