Parole che non sono nulla, cioè tutto quello che c’è da dire.

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Al Teatro Argentina, dal 21 febbraio fino al 5 marzo, va in scena «Pour un oui ou pour un non» ( Per un sì o per un no), commedia di Nathalie Serraute, con Umberto Orsini e Franco Branciaroli, per la regia di Pier Luigi Pizzi, che cura anche le scene e i costumi.
Proprio la regia e le scene sono una cifra del successo dello spettacolo, oltre alla magnifica prova dei due interpreti, rendendo vivo un lavoro scritto dalla Serraute originariamente per la radio e restituendoci in modo affascinante la complessità del testo.
Al centro del palcoscenico c’è un divano rosso, dove tutto inizia e finisce, circondato da mobilia bianca e pareti nere di grafite su cui i due attori scriveranno le parole su cui si arrovellano.
La luce viene da una lampada e da una finestra, quasi un dentro e un fuori delle loro esistenze, e alle loro spalle infine ci sono alte librerie bianche, con libri anch’essi bianchi, intorno cui i due attori si inseguono con le parole e con i corpi.

Perché il dramma o la commedia, se si preferisce, mette proprio al centro l’ambiguità delle parole, il detto è il non detto e la loro forza : ogni parola diventa sovversiva in rapporto alla parola taciuta, ma anche si apre a significati multipli e variati non solo in base all’intonazione con cui viene pronunciata,  ma soprattutto in base alla disposizione d’animo di chi ascolta, un nulla che può cambiare tutto, come l’espressione francese del titolo vuole suggerire.
In fondo la trama è quasi inesistente: ci sono due amici, vagamente caratterizzati come anziani intellettuali, uno piu calmo in apparenza (Orsini), ma in realtà pieno di risentimento e rabbia, l’altro più esuberante (Branciaroli) e accondiscendente, che cela però un senso di colpa e infine un non convinto riconoscimento.
Appartengono ad un ceto medio/borghese e nel tentativo di dare spiegazione di un loro allontanamento si trovano appunto a parlare di parole.

Ma queste parole e il silenzio di quelle taciuta si intrecciano le une all’altro nel generare e ricostruire le premesse di una comunicazione che si allontani da quelle chiacchiere quotidiane e si avvicini alle esperienze della vita.
Quel silenzio vitale, quello spazio dell’accadere immotivato, gratuito e terribile della vita, origine nascosta tra ciò che siamo e ciò che saremo chiamati ad essere nostro malgrado.
Il non detto emerge attraverso le parole e i due amici si confrontano, si scontrano, litigano – forse – per una sciocchezza, rivelando invece che sotto le parole più semplici c’è una tensione che agita un mondo interiore, profondo e aggressivo.

Tutto questo provoca inizialmente disagio nello spettatore, ma allo stesso tempo lo cattura, perché pian piano la disputa diventa sua, nostra : queste parole le abbiamo pronunciate, questi silenzi li abbiamo sentiti. Solo attraverso le parole ci facciamo a pezzi e facciamo a pezzi gli altri, perché danno corpo alle nostre ferite, la vita, la morte, l’amore, il desiderio, l’angoscia. Provare a nominare le nostre ferite, insistere, persistere, star lì dove si è, conficcati nel proprio vuoto, non lasciare la presa, nell’impossibilità di una promessa di salvezza o di riconciliazione, mentre  rancori insanabili ci agitano, mentre si litiga banalmente per un nonnulla,  per un sì o per un no, sospesi tra l’ultima parola detta e la prima parola nuova da dire.
In questo gioco crudele ma inarrestabile, Orsini e Branciaroli sono abilissimi.
Assistere alla loro interpretazione è esattamente come assistere al litigio tra due sconosciuti; non si sa perché stiano discutendo e le parole passano in secondo piano rispetto all’uso che se ne fa. I protagonisti si contendono la ragione, alternandosi nella difesa di due posizioni contrapposte (quella del sì e quella del no), cui inizialmente non tengono veramente, in un battibecco infantile, gonfio di citazioni, accompagnando la disputa con i loro movimenti corporei, guardandosi in tralice come i fidanzati quando litigano per non annoiarsi e forse prendendosi in giro, ma restando alla fine prigionieri e vittime della terribile trappola delle parole, una trappola mortale.

Dora Iannuzzi

Foto Amati-Bacciardi

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