EuropAuditorium: «La Traviata», nonostante tutto, chiude la Stagione

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Finale complicato per la stagione bolognese, quasi una corsa ad ostacoli.
Della corsa c’è sicuramente il senso di urgenza che la provvisorietà della sede impone. Per quanto riguarda gli ostacoli, non ne sono mancati affatto, non ultimo lo sciopero che ha di fatto annullato la prima del 16 Dicembre. L’adesione così massiccia alla movimentazione nazionale è di certo un segnale importante su cui qualcuno dovrà riflettere e la precarietà dell’ubicazione di certo non avrà contribuito a rasserenare gli animi. D’altro canto, i lavori di ammodernamento del massimo cittadino, in prospettiva consolideranno e rilanceranno l’istituzione musicale felsinea ai vertici nazionali.
Fatto sta che La Traviata del 18 Dicembre va in scena nello spazio polifunzionale del Teatro EuropAuditorium, con lo stesso cast programmato per la prima. Lo spazio è solo provvisorio, in attesa che venga ultimato per fine Gennaio un apposito padiglione della Fiera, ingegnerizzato acusticamente e scenicamente ad hoc per l’Opera.
Che sia chiaro, l’Auditorium non è il Paladozza e – sebbene con qualche limitazione – tutto sommato è uno spazio che si adatta allo spettacolo. L’ampiezza del palco non aiuta i cantanti nel gesto e nel risultato sonoro mentre le scene risultano diluite nello spazio scenico, troppo sproporzionato in larghezza e castigato in profondità. Questo crea degli ingorghi quando il coro occupa la scena ed un senso di eccessiva spazialità nei quadri più intimi.
Questo ci tocca ed è grasso che cola, quasi sia un esercizio retorico inutile rimarcare quanto fosse più bello il comunale.
Credo lo sappiano tutti.  Di certo se ne sarà accorto Alessandro Talevi che ha dovuto riadattare la regia ai nuovi spazi.
Per questa produzione voleva riproporre l’alta drammaticità del cinema espressionista tedesco. Per spiegare cosa ha funzionato solo parzialmente, immaginiamo di prendere Metropolis di Fritz Lang e sgranarlo dai 4/3 originali ad uno schermo ultrawide.
Il dramma è anche proporzione e la perdita di quest’ ultima porta ad un appiattimento di ogni climax. Tant’è che valeva provare e, tutto sommato, piuttosto è sempre meglio che niente. Anche le proiezioni durante i due preludi (un occhio che spia Violetta come attraverso uno spioncino, o la successiva immagine al microscopio a simboleggiare la malattia), forse si perdono nello spazio. La scena è minimale, file di sedie per il coro ed una pedana circolare al centro su cui si svolge la scena, quasi un palco dentro al palco, un elemento che restringe l’attenzione ed aiuta lo spettatore a non perdersi nella restante vaghezza scenica. Funziona. Moderni gli abiti di Stefania Scaraggi.
A momenti poco interessanti, si contrappongono frammenti brillanti come quello dei cori delle zingarelle. Tra una difficoltà e l’altra questa regia va avanti con un passo sincopato, come quello di un atleta che salta l’ostacolo ogni tre falcate.
Anche la musica parte timida con un Riccardo Frizza sul podio che inizia in modo contenuto per poi sciogliere le briglie all’orchestra senza però mai perderne il controllo.
Ottimo il supporto musicale nel duetto tra Violetta e Giorgio Germont. Per il resto, anche la musica nei grandi momenti corali si diluisce in un eccesso di ampiezza.
I primi ad essere in difficoltà sono gli eccellenti Artisti del Coro che – questa volta – sembrano avere un approccio più conservativo e portano a casa la recita con mestiere senza però esaltare.
Di certo da un titolo che mette in scena momenti così “pieni” ci saremmo aspettati ben altro risultato.
Giudizio sospeso sui cantanti, quasi tutti.
Se, d’apprima Zuzana Marková nel ruolo eponimo indispone per un timbro troppo affilato, nel giudizio complessivo è artefice di un’ottima prova con acuti sciolti ed un ottimo Sempre Libera.
Nel complesso buono anche il lavoro drammaturgico che sublima nel coinvolgente “Addio del passato”.
Forse non capiamo pienamente la passione della donna per un Alfredo anonimo. Rame Lahaj le è sempre un passo indietro per proiezione sonora e fraseggio. Il timbro è buono ma manca di sostegno.
Vero mattatore della serata è il Giorgio Germont di Roberto Frontali, autore di una prova piena e consapevole. Bravo Bravo Bravo. Non a caso il baritono ha ricevuto sul finale l’applauso più lungo e sincero.
Tra gli altri spicca Laura Cherici che, per personalità e nitidezza vocale,  convince per la sua Flora. Non dimentichiamo un’appropriata Melissa D’Ottavi nei panni di Annina ed il gradevole Marchese d’Obigny di Paolo Orecchia.
Fanno il loro Dario Giorgele, Adriano Gramigni, Paolo Antognetti ed Enrico Picinni Leopardi, rispettivamente Baron Douphol, Dottor Grenvil, Gastone e Giuseppe.
In questa corsa ad ostacoli si è arrivati al traguardo senza cadere. Se qualche volta il passo è stato sbilenco per via di qualche inciampo che non è degenerato mai in un capitombolo dobbiamo di certo considerare le attenuanti dovute al contesto non favorevole. Certi che andrà meglio nella nuova sala, tutto sommato abbiamo assistito ad una buona recita.

Ciro Scannapieco

foto Andrea Renzi ©

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