Conclude la sua seconda edizione il Festival di CasaCorriere, organizzato dal Corriere del Mezzogiorno – Corriere della Sera e con la direzione artistica di Laura Valente. Il Festival quest’anno ha trovato la sua allocazione nel Teatro di Corte a Palazzo Reale di Napoli.
La manifestazione, che, dal 4 al 6 novembre, ha visto tra i suoi ospiti della giornata inaugursle, il neoministro della cultura Gennaro Sangiuliano, ha promosso il tema del cambiamento proprio attraverso la Cultura.
Dibattiti, interviste e spettacoli si sono succeduti davanti a un pubblico che ha partecipato con interesse a un evento di indubbio spessore culturale. A raccontare il cambiamento attraverso gli occhi del cinema, è stato anche il regista Marco Bellocchio.
«L’assassinio di Aldo Moro ha decretato la fine della politica per le generazioni che, in modo utopistico, l’avevano cavalcata come opzione per cambiare il mondo. E il terrorismo di quegli anni è stato l’ultimo acuto di un’idea di rivoluzione che si è dissolta completamente».
È Bellocchio a parlare di un tema a lui così caro tanto da affrontarlo in ben due film: “Buongiorno notte” del 2003 e il più recente “Esterno notte” concepito in forma di serie televisiva e che sarà trasmesso il 14, 15 e 17 novembre prossimi.
E se il primo si concentrava sulla prigionia dello statista della DC, il secondo sposta l’attenzione nel racconto, forte e incisivo, dei personaggi che vissero la tragedia. Un’analisi psicologica dura, spietata e realizzata grazie alla bravura di attori come Fabrizio Gifuni che, afferma Bellocchio «conosceva i fatti più di quanto li conoscessi io avendo interpretato Moro in un precedente lavoro teatrale».
Il film Esterno notte non è pervaso dalla rabbia di un fatto che ha storicamente segnato le coscienze della classe politica di allora. D’altronde la DC e il PCI furono unanimi nel decidere la linea dura” precisa Bellocchio.
«Anche se la liberazione di Moro – aggiunge Bellocchio – avrebbe avuto un effetto molto più destabilizzante per l’apparato politico mentre l’assassinio segnò la fine di ogni possibile sopravvivenza per i brigatisti e della loro devastante idea di cambiamento».
Sollecitato a parlare del suo rapporto con gli attori, il regista rivela candidamente che è sua abitudine indirizzarli semplicemente verso il personaggio.
«D’altra parte – afferma il cineasta – cosa volevi imporre a un mostro di bravura come Gian Maria Volontè che andava praticamente da solo?».
Sullo schermo, intanto, scorrono le immagini dei suoi film più importanti. Ci piace soffermarci sul suo film di esordio “I pugni in tasca” che rappresentò un vero spartiacque nella cinematografia del tempo. Correva l’anno 1965 e il giovane Bellocchio si era da poco diplomato al Centro Sperimentale di Roma sotto la guida di Andrea Camilleri, suo docente.
Fu proprio Camilleri, intuite le qualità registiche, a consigliargli di lasciar perdere la recitazione e di passare dietro la macchina da presa. Bellocchio accettò fortunatamente il consiglio regalandoci un cinema che è “cinema d’autore” capace, cioè, di raccontare, in maniera forte, il potere. E in effetti è proprio questo tema a permeare tutti i suoi lavori perché è nella finzione cinematografica che riesce a rappresentare la sua naturale opposizione ai “padri padroni” denunciandone vizi e difetti.
In questo contesto, non poteva mancare il racconto della mafia descritta ne “Il traditore” nel quale, con stile sobrio e senza compiacimento, mette a nudo la violenza e la fragilità di un sistema delinquenziale che si adatta, subdolamente, al cambiamento dei tempi.
Rosanna Rummo, che lo stimola nel dibattito insieme con Antonio Polito, gli strappa, infine, la promessa di raccontare in un film la storia, tutta napoletana, dei furti di preziosi libri antichi alla Biblioteca dei Girolamini.
Alla fine lo avviciniamo per chiedergli il motivo del suo interesse così intenso per la vicenda Moro: «Si tratta di un vero e proprio coinvolgimento emotivo che esula da ogni aspetto politico» risponde Bellocchio facendo intuire il dolore per un evento che lo ha segnato profondamente.
Tre giorni di straordinario interesse, per l’ennesimo obiettivo centrato da Laura Valente; prestigiose presenze, come i sindaci delle Città Metropolitane, i contributi musicali di Enzo Avitabile e di Marco Zurzolo, di Fausta Vetere, la brillantezza narrativa di Maurizio de Giovanni, il talento di Cristina Donadio, l’ironia yiddish di Moni Ovadia, i ragazzi del NTS e soprattutto la saggezza della senatrice a vita Liliana Segre che, conversando con il direttore del Corriere del Mezzogiorno e con Giorgio Verdelli, ha da par suo affascinato l’uditorio rivelandoci del suo viaggio di nozze a Capri negli anni 50 e di ripetuti viaggi a Napoli.
Al direttore responsabile del Corriere del Mezzogiorno, Enzo d’Errico, Liliana Segre racconta: «Perché mi odiano? Da una parte c’è un odio antico, che si chiama antisemitismo e non si è mai interrotto, dall’altra c’è l’anonimo vigliacco della tastiera che arriva dalle parti più disparate». (cfr. da Corriere del Mezzogiorno: CasaCorriere Festival Liliana Segre: «Amo Napoli, qui il mio viaggio di nozze»)
Franco Milone