Pretty Yende e Ferzan Ozpetek entrano nel cuore dei napoletani
Metti l’opera più eseguita al mondo, con un allestimento raffinato e collaudato, un cast di cantanti di pregio, nel più bel teatro del mondo e il successo è servito.
Questo mix di elementi vincenti si è combinato venerdì 22 luglio con “La Traviata” di Verdi con la regia di Ferzan Ozpetek che si avvale delle scene di Dante Ferretti e dei costumi di Alessandro Lai e che ha avuto sul palco il soprano sudafricano Pretty Yende nel ruolo di Violetta, il tenore Francesco Demuro a dare voce ad Alfredo e il baritono George Gagnidze nel ruolo di Giorgio Germont, naturalmente il tutto al Teatro di San Carlo.
Il regista propone una Parigi ispirata alla Recherche proustiana, tra ricami, oppio e specchi nel primo atto, una residenza di campagna e poi una gradinata metafora del declino di una borghesia che smarrisce certezze e ancora non dismette inconfessate invidie per un’aristocrazia highlander.
Ozpetek ha dato sostanza ad una sorta di quaderno di appunti preliminari costituito nel 1999 dal suo film “Harem Suare”, ambientato in un 1910 di decadenza ottomana, ma al San Carlo l’unica concessione al cinema è il video del volto del soprano protagonista.
Il melodramma è arte composita e naturalmente è la musica a giocare il ruolo principale e qui il talento di Pretty Yende, che pure doveva fare i conti con le illustri predecessore al San Carlo nel medesimo allestimento negli ultimi dieci anni, ha mandato in estasi il pubblico, compresi i 300 spettatori dell’Orchestra Sinfonica dei Quartieri Spagnoli , ragazzi, genitori e maestri.
Violetta è un ruolo nato nel 1853, quando la tipologia sopranile era ancora sostanzialmente belliniano-donizettiana e, per tanto, non deve fare storcere il muso nemmeno ai melomani più conservatori, che a interpretarla possa essere un soprano belcantista, purché, ed è proprio il caso di Yende, in possesso di voce ben proiettata e di centri presenti.
Loggionisti soddisfatti dal mi bemolle del finale di primo atto, benché toccato con quella fugace eleganza necessaria nell’introdurre quanto non scritto da Verdi.
L’Alfredo giovanile e non eroico di Demuro (dovrebbe esserlo?), nel secondo atto, ha “lavato l’onta” ad alta temperatura, ovvero con un do acuto, anch’esso di tradizione, ma non in partitura.
Quanto al Germont di Gagnidze va detto che il baritono georgiano è un purosangue sulla cui vittoria rende poco scommettere: timbro brunito, fraseggio misurato, espressione e solo qualche eccesso di volume, in ragione della ben maggiore potenza vocale rispetto ai suoi ottimi colleghi.
Sul podio, Francesco Ivan Ciampa ha condotto con diligenza, adattando andamenti e volumi in tempo reale, come se le prove, forse poche, si fossero svolte a voci accennate e perciò non del tutto indicative né degli equilibri dinamici né delle tenute dei fiati.
Un discorso analogo vale per la banda di palcoscenico, spesso non a piombo ritmico, come nella terza scena del primo atto; quanto ai fuori tempo nella scena nona del secondo atto può essere ricondotto a problemi di riporti audio o di affannosi posizionamenti dopo il laborioso quanto inevitabile cambio scena, la quale ha però mostrato belle coreografie.
Il Coro diretto da un Josè Luis Basso che si è regalato un cammeo, si è mosso a proprio agio in un contesto collaudatissimo.
Una nota di merito va alla Annina dell’esperta Daniela Mazzucato, che ha fatto valere recitazione ed espressione, così come di pregio è parso Alessandro Spina in Grenvil.
Valeria Girardello, Marco Miglietta, Enrico Marabelli, Pietro Di Bianco, Michele Maddaloni, Giacomo Mercaldo, e Alessandro Lerro hanno completato il cast. Standing ovation.
Dario Ascoli
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