La natura negli esterni, che illuminano le relazioni e l’estroversione e gli interni che precipitano Tat’jana e Evgenij in un claustrofobico isolamento che pure conferisce loro le pavide certezze: è la principale chiave di lettura del regista australiano delle “scene liriche” di Čajkovskij da Evgenij Onegin di Puškin, la cui regia di Barrie Kosky si avvale dell’apparato scenografico di Rebecca Ringst per la produzione della Konische Oper Berlin.
Tat’jana scrive la lettera all’uomo di cui è innamorata, che per superficialità o per anaffettività non corrisponderà se non tardivamente e Kosky letteralmente smaterializza le mani di Tat’jana, le fa celare dietro la schiena, come attribuendo loro la colpa di avere dato espressione a un sentimento troppo privato, intimo, per diventare scritto.
C’è tutta Antonina, insistente e grafomane innamorata di Čajkovskij, il quale per un breve periodo crederà di corrispondere, al punto di legarsi a “Nina” in un disastroso matrimonio.
«Cominciai a scrivere la musica della lettera di Tat’jana, cedendo a un invincibile bisogno spirituale, e nell’impeto mi scordai completamente della signorina Miljukova – scrive Čajkovskij – Totalmente immerso nella composizione mi immedesimai al tal punto nell’immagine di Tat’jana che questa divenne per me una persona in carne ed ossa. Amavo Tat’jana ed ero furioso con Onegin […] e divenni furioso con me stesso per il mio comportamento spietato nei confronti di questa ragazza [Antonina] che mi amava».
Fabio Luisi non cade nel trabocchetto di trattare la partitura ciajkovskiana come una sinfonia con voci; cantabilità lirica anche nelle linee strumentali e soprattutto nessuna concessione a quella magniloquenza eroica che rimanda più ad una lettura sovietico-novecentesca che a quel romanticismo incline a citazioni di classicismo europeo, caro invece a Čajkovskij.
La Russia c’è tutta, ma davvero integralmente, inclusa quella che guardava verso Parigi, Napoli e quelle culture che Il nazionalismo novecentesco frettolosamente ha stigmatizzato come borghesi e deteriori.
E se ci si chiede dove sia la Rivoluzione Bolscevica, Kosky ce ne rivela l’imminenza con la cancellazione, smontaggio a vista del salotto, luogo simbolo della borghesia, che pur nel principesco palazzo di Gremin, conserva un pavimento erboso, di contadina memoria.
Artur Rucinski, che ha annunciato di volersi dedicare a ruoli più belcantistici, ha regalato un Onegin distaccato, disincantato, al limite dell’anaffettivo e oltre, almeno fino alla tardiva determinazione di corrispondere l’amore di Tat’jana, dopo avere consumato la propria vita disintegrando tutti i sentimenti a cominciare dall’amicizia con Lenski, un elegante, giovanile e splendidamente belcantista nei cantabili, Michael Fabiano, da lui ucciso nel più incomprensibile dei duelli, cui Kosky fa giungere in preda all’alcol gli sfidanti.
Strabiliante la capacità di Elena Stikhina di fare evolvere personalità e vocalità di Tat’jana, dalla timidezza alla fierezza, persino fornendo motivazione alla iniziale freddezza di Onegin, mentre l’ammirazione dell’ascoltatore per il soprano russo non può che essere calorosa e immediata.
Concreta e consapevole del proprio fascino è emersa la Olga dell’ottima Nino Surguladze, così come di rilievo è risultata Monica Bacelli nel ruolo di Larina.
Non c’è lingua né colore che possa impensierire Josè Luis Basso e il Coro del San Carlo e quest’ultimo si è fatto trovare preparato all’impegno.
Trascinati dall’eccellenza hanno dato tutti il meglio di loro stessi gli altri interpreti Larissa Diadkova, Alexander Tsymbalyuk, Roberto Covatta, fino agli artisti scelti dal Coro, Antonio De Lisio, Rosario Natale e Mario Thomas.
I costumi di Klaus Bruns giocano su consonanze e contrasti cromatici con gli ambienti, favoriti dalle luci accurate di Franck Evin.
Applausi per tutti alla prima al Teatro di San Carlo del 15 giugno e ovazione meritatissima per Elena Stikhina.
Evgenij Onegin al Teatro San Carlo: I tempi sbagliati di un amore
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