Colleferro-Roma-Colleferro, andata e ritorno. Una vita. Quella di Antonio, uomo dai Natali ruspanti e l’animo bello. Un animo ben educato dalla fortunosa routine con la bellezza.
La bellezza preziosa da trattare con cura, ovvero coi guanti: bianchi, per la precisione. Come quelli che indossano i ‘movimentatori’ di opere d’arte, perché “le opere non si portano ma si movimentano”, e come il titolo della recente pièce di Edoardo Erba, Guanti bianchi, appunto, tratta dal libro di Paola Guagliumi, “L’arte spiegata ai truzzi”, a sua volta travaso di un blog che la stessa autrice ha creato con l’apposito intento di rivolgersi non solo a generici non addetti ai lavori, ma espressamente a coloro che di fronte a un Mirò, per esempio, esclamerebbero ‘che è sta roba?’ Chiamali truzzi, chiamali come ti pare, coatti, tamarri, buzzurri, sono loro i primi destinatari dei suoi proseliti.
Un’idea originale e soprattutto vincente che ha generato un processo virtuoso arrivato fino al teatro, con questo monologo che Erba ha scritto per Paolo Triestino, attore di razza con cui ha più e più volte collaborato, anche questa volta regista di se stesso, ‘talebano’ sempre, perché il teatro è la cosa più seria che c’è. A maggior ragione se qua e là una risata te la vuole strappare.
Lo spettacolo ha debuttato al Teatro Tor Bella Monaca di Roma a fine maggio e ha riscosso un gran bel successo, arrivando diretto al pubblico di tutte le età, come dimostrano gli studenti che in tre o quattro giorni hanno dato vita a un tam tam che ha riempito la sala.
Ce la possiamo fare. A parlare di arte, a riempire i teatri, persino a parlare di arte dentro un teatro.
E a parte il fare o non fare parte dei truzzi predestinati, lo spettacolo è per tutti un gran bel ripasso. Una contestualizzazione di opere che spiegate facile facile, ti viene voglia di andare a vedere o rivedere e magari farci una riflessione tra il serio e il serioso sulla falsariga di quel che Antonio ci ha appena spiegato. Perché chi è senza peccato scagli la prima pietra. Chi di voi, con tanto di scuole fighe alle spalle, non ha mai detto ‘che è sta roba?, la potevo fare pure io o mio nipote?’
I tagli sulla tela di Fontana, per esempio. Solo tela e qualche taglio. Sai che trovata! Eppure sono proprio quei tagli che ti ricordano che la tela è una tela e in quanto tale ti invita a ricominciare da zero. Ma te ne accorgi solo tagliandola. Proprio come “ti ricordi che hai un dito solo quando te lo schiacci”.
Ecco, queste cose ci spiega Antonio, con il candore di chi mescola praticaccia e teoria perché l’una e l’altra sono essenziali, anzi, l’una non è senza l’altra. Se la temperatura del furgone non è quella giusta, per esempio, non ti azzardare a movimentare un Caravaggio.
Su due binari si muove il testo e lo spettacolo tutto, giustapponendo opere d’arte e vita quotidiana, quella di Antonio ma anche la nostra: dalla Nike di Samotracia che ha dato il nome a una marca di sneakers a Michelangelo al quale papa Giulio II chiese di ‘dare una botta al soffitto della Sistina’. Una botta.
Anche il linguaggio si muove su più piani, mutuando slang e chiedendo all’attore accenti diversi: il bolognese di Annibale Carracci, colui che per dipingere il paesaggio così come gli va, ‘ci schiaffa dentro la fuga in Egitto’, è, in questo senso, un momento topico.
Ma se sei bravo davvero, non importa dipingere la storia di Gesù. Vanno benissimo le zucchine e tutte le verdure. Meglio dipingerle che buttarle, o no? E allora nasce la natura morta, cioè i dipinti senza anima viva.
Le zucchine, in particolare, daranno vita a una bella circolarità nello spettacolo, da Jan van Kessel all’orto di Colleferro dove Antonio farà ritorno dopo vicissitudini che non anticipiamo.
Zucchine come madeleine che ti tornano in mente affondando le mani nude nella terra, dopo avere deposto i guanti bianchi.
Ma Colleferro offre all’autore e quindi al suo Antonio un’ulteriore occasione di affondo nella realtà quotidiana: dispiace fare spoiler ma si può dire che con un balzo da maestro, pieno di grazia, di rabbia, di sentimento, grida la sua e la nostra impotenza, il nostro silenzio, il nostro dolore e il dolore di tutti. Siamo all’urlo di Munch, muto, strozzato in gola come quello di una madre e di tutte le madri che hanno perso un figlio. Madri disperate che imprecano contro il cielo come Maria di Cleofa nella Deposizione della Croce di Caravaggio che sembra chiedere a Dio ‘ma ‘ndo stai’.
Due millenni di capolavori scelti e raccontati in un’ora e mezza, calibrando emozioni forti e leggerezza, passando da opere celeberrime di giganti indiscussi a opere meno note, difficili, enigmatiche, anche ermetiche, ma sempre ricorrendo alla didattica spicciola di chi si è fatto sul campo, da solo, rispondendo al richiamo della bellezza col cuore puro e la mente libera.
Liberamente ispirato a L’arte spiegata ai truzzi, di Paola Guaglium
idi Edoardo Erba
diretto ed interpretato da Paolo Triestino
disegno luci Giuseppe Magagnini
musiche Natalia Paviolo