Comincia con un avvertimento sonoro che ci immette in una foresta abitata da ombre persecutorie.
Una foresta metropolitana o una foresta di anime che si rincorrono senza afferrarsi: anime sdoppiate, frammentate, lacerate che mal si riflettono in quei pannelli a specchio mossi quasi ininterrottamente dall’unica creatura che si aggira sulla scena come un animale selvatico.
Sono le prime battute de La notte poco prima delle foreste, lo spettacolo diretto da Marco Mattolini con Fabio Vasco, giovane interprete del monologo scritto da Bernard-Marie Koltès nel 1977, con il quale tanti attori e registi si sono confrontati.
Non è un caso che la voce di questo flusso tormentato di pensieri lasciati a metà, sospesi in anacoluti che si ritorcono contro, abbia il terrore degli specchi.
E non è un caso che sia la foresta, reale o metaforica, metropolitana o naturale, il luogo in cui Koltes ha calato il suo dolente alter ego.
Ma ‘poco prima’, come a dire ‘cosa succede a un disperato in quel pezzo di tempo che lo separa dal baratro, dalla perdizione, dal definitivo risucchio di ogni residua tentazione di restare al di qua.
C’è ancora per lui una possibilità di salvarsi e attendere che faccia giorno una volta cessata la pioggia battente che scandisce la corsa, oppure non gli resta che arrendersi alle ombre della notte e aspettare di farla finita?
Koltes non ci lascia molte alternative.
Egli appartiene al diverso, all’emarginato, allo straniero e a lui affida la sua rabbia, le sue angosce, la sua compassione e anche il suo cinismo.
Forse è questo il caso giusto in cui ha senso parlare di empatia, proprio nel senso di riconoscere se stesso nel volto dell’altro, ogni volta diverso e simile a sé, e anche per questo amarlo e difenderlo oppure temerlo come il nostro potenziale nemico.
Il conflitto, si immagina, sia il cuore pulsante di questa operazione, lo sdoppiamento se non proprio la frammentazione che non trova soluzione. “Avrei voglia di partire se sapessi dove andare”, bella sintesi in una battuta.
E la foresta, o le foreste, come in questo caso viene tradotto il titolo originale, diventa spazio vivo di conflitto: con il mondo e con se stessi, uno spazio in cui gli incontri sono possibili, cercati, anelati e rincorsi, e poi di nuovo rifuggiti e abbandonati. Persino disprezzati.
Perché a uno straniero senza patria né radici, niente fa più paura del suo stesso desiderio di mettere radici.
E così le soste, i luoghi franchi in cui cercare riparo non sono che anonime stanze d’albergo, surrogati di una quiete impossibile, ogni volta diverse, senza tracce e senza possibilità di fare progetti.
Il testo tutto si muove avanzando e arretrando, sempre sul filo del precipizio, ora provando a fuggire e sfuggire al giudizio del mondo borghese andando verso se stessi in cerca di una luce nel buio, ora da se stessi e dall’immagine alterata che rinviano quegli specchi offuscati che dominano la scena.
Una scena in cui Fabio Vasco agisce con bella efficacia, affidandosi anche a una gestualità evocativa, vigile, mai casuale, nell’impianto scenico di Giulia Balbi, che cura anche i costumi, e con i movimenti Gloria Pomardi.
Come quando racconta di quando è stato riempito di botte recitando la scena a partire dall’effetto. Un esempio, uno solo, di un lavoro accurato che è frutto di un pensiero pregresso.
Di fronte a un testo che è quasi un manifesto il rischio retorica è sempre in agguato, e così l’autocompiacimento, sia registico sia interpretativo, che strizza l’occhio all’attualità più scontata.
Non è questo il caso e lo abbiamo molto apprezzato.
Spettacolo visto al Teatro Off Off di Roma il 22 marzo 2022
Alessandra Bernocco