Con un podio ed un’orchestra schierata, bisognerebbe solo parlare di musica. Anzi, nemmeno quello. Bisognerebbe chiudere gli occhi e ascoltare in religioso silenzio ogni singola nota. Ciò, se fossimo in una situazione normale. Ma questa storia normale non lo è di certo.
Piovono bombe in Ucraina. Per noi occidentali figli di un’Europa (almeno nelle sigle) unita, la guerra è sì realtà, ma -almeno fino ad ora- lontana. Ci interessava, ovvio, ma solo per sfoggiare un social-commento da politologo (quando non impegnati come Virologi o, comunque, lontani da eventi sportivi per cui è necessaria massima dedizione al delicato compito di Commissario Tecnico della nazionale). In fondo non ci riguardava da vicino. Potevamo concederci il privilegio dell’ideologia relegando le barbarie ad un mondo che – con un certo snobismo – abbiamo sempre pensato di seconda fascia. Non è più così. Bombe e devastazione in Europa ci riportano indietro di almeno cento anni. Con un dramma in atto che ci riguarda tutti da vicino è lecito che la musica non sia solo musica.
Bologna si stringe attorno alla Direttrice del Teatro Comunale Oksana Lyniv con grande calore.
Già lo scorso Venerdì, migliaia di persone si sono date appuntamento in Piazza Maggiore per una fiaccolata per la pace. Questo afflato di vicina fratellanza è lo stesso registrato per il Concerto di Sabato 26 Febbraio presso un gremito Auditorium Manzoni.
Che non sia una situazione normale lo sottolinea la presenza delle istituzioni sul palco. «Questo è l’affetto di Bologna per te – commenta il Sindaco Lepore – per testimoniare la solidarietà a te e all’Ucraina, invasa dalla follia di una guerra che non ha motivazioni».
La direttrice risponde in musica dirigendo con una bandiera giallo blu adagiata sul podio, “We Are” di Yuri Shevchenko, un brano ispirato dalle melodie dell’inno nazionale ucraino. «Stiamo combattendo per la libertà e per la democrazia».
Lei lo fa con le sue armi. Musica e bacchetta per tenere l’attenzione alta su una grande tragedia. E sono le uniche armi che ci piacciono.
Dopo tutto questo trasporto sarebbe impossibile ricomporre i pensieri ed ascoltare il programma come se nulla fosse. Meglio lasciare aperto il rubinetto delle emozioni ed immergerci -nudi- nella musica che segue. Il programma è molto bello e – forse involontariamente – segue un fil Rouge di commistione tra mondi musicali diversi.
L’adagio per Archi di Samuel Berber è una delle composizioni più proposte del direttore statunitense. Così frequente che lo stesso autore ebbe a che dire – con non poco disappunto – “suonano sempre quella”. Ma Berber, con quel suo linguaggio fuori dal tempo, un romantico tedesco nel cuore della pulsante e frenetica America, non ebbe una vita artistica facile. Croce e delizia fu proprio questo Adagio, così intenso da essere addirittura usato per i funerali di J.F. Kennedy o Albert Einstein.
Proprio questo componimento fu grimaldello per portare ad un dignitoso successo il resto della produzione musicale.
Si prosegue con l’evento più atteso della serata: Il Concerto per clarinetto e Orchestra di Aaron Copland eseguito da uno dei più grandi virtuosi dello strumento in attività – Alessandro Carbonare. In questa partitura si scontrano due mondi musicali allora in forte contrapposizione il jazz e la musica cosiddetta classica. Commissionata – e profumatamente pagata- da Benny Goodman, allora volto più celebre dello swing.
Ma non si pensi al Jazz del dopoguerra come ad una musica “colta” o da salotto. All’epoca – dopo aver anche passato decenni di profondo ostracismo moralista fino ad essere etichettata come musica da bordello – il Jazz era poco più che musica da intrattenimento. Benny, innamoratosi del Jazz dopo aver assistito alla performance di una band proveniente da New Orleans, divenne in pochi anni un fenomeno nazional popolare. Il suo swing da balera lo rese celebre. Non male per il nono di dodici figli di un immigrato ebreo polacco nella fredda Chicago di inizio ‘900. E non pensiate che un polacco bianco non possa suonare questa musica. L’influenza dei musicisti e parolieri ebrei nella stilizzazione del jazz moderno è stata fondamentale, si potrebbe anche dire che senza – forse – anche le frange musicali più estreme non avrebbero avuto possibilità di emancipazione (Si legga per approfondimento “Che razza di musica”- S. Zenni). Se da un lato Charlie Parker stava inventando un nuovo, oscuro, evocativo e potente linguaggio nella pericolosa periferia di New York, Goodman cercava di legittimare il Jazz. Copland era il suo strumento. Ne uscì fuori una partitura meravigliosa. Il concerto porta le sonorità dello swing in un impianto classico. Ma non solo una giustapposizione di stilemi musicali bluesy per dare al componimento un gusto un po’ esotico. Copland era un cultore della musica jazz, ne conosceva sia l’avanguardia (Miles Davis, Mingus, Tristano) che la vecchia scuola (Duke Ellington). Il merito artistico di questa partitura in due movimenti principali è di aver rispettato la musica che doveva celebrare. Siamo lontani anni luce dal bop, ma in quanto a swing e ragtime ce n’è a bizzeffe. Così tra contrabassi schiaffeggiati e percussioni vigorose, il clarinetto deve domare le insidie di lunghe frasi legate. Carbonare è il musicista perfetto per questa musica. La velocità dei fraseggi, gli effetti speciali propri del genere, legati, glissati, stonature controllate, gli permettono di sciorinare lezioni di tecnica. Suona quasi danzando, con la consapevolezza di essere bravo e l’autostima di chi si sente il più bravo. Il narcisismo per un solista – però- non è peccato.
È quel legame che indulge ad un’appariscente esibizionismo pretenzioso di meritati apprezzamenti. Sarebbe deprecabile se fosse solo un vuoto apparire. Ma Carbonare è Carbonare, troppo bravo per recriminargli qualcosa. Un tripudio di meritatissimi applausi. Parafrasando, bonariamente, il Marchese del Grillo: Lui è Lui…
Solida è l’orchestra che lo sostiene, diretta da una bacchetta che fa del ritmo e della dinamica un gran punto di forza. Bravissimi sia i musicisti dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna che la direttrice Lyniv.
Si chiude con la Sinfonia n.9 di Dvorak di cui più volte è stato scritto su queste pagine.
Un altro, forse il primo tentativo di contaminare la stagnante musica europea di nuovi elementi. Magari questo episodio sinfonico non è stato digerito alla perfezione dall’orchestra che indulge ad attacchi talvolta non precisissimi e perde talvolta il supporto delle percussioni. Il risultato è – comunque – più che discreto.
Manco a farlo apposta, nel giorno più difficile, Lyniv porta in scena una musica di grande contaminazione. Elementi diversi che si fondono con coscienza armonica senza confliggere, dove anche le dissonanze sono funzionali ad uno sviluppo positivo del discorso musicale.
Fortunatamente – almeno nella musica è così. Bisognerebbe solo ascoltare ed imparare. Ma queste sono parole che diciamo sempre e non metabolizziamo mai.
Questa volta la musica in teatro è coperta dal rumore aspro della guerra, a due passi da qui. Sembra surreale, purtroppo è vero.
Oggi è giusto che la musica non sia solo musica e non sia al centro del palco. Possiamo solo unirci a chi non sopporta lo stridore di ciò che sta accadendo. Avremmo solo voluto ascoltare musica, in pace.
Ciro Scannapieco