16 Dicembre 2021, l’aria natalizia già pervade le strade di Bologna. Quale migliore occasione per proporre una fiaba come “La Cenerentola”?
“La Cenerentola”, ventesima opera di Gioachino Rossini, scritta a soli 25 anni, è l’ultima composizione buffa dell’autore o – forse – la prima seria sotto mentite spoglie. Nella vicenda, infatti, elementi fortemente drammatici si incastonano in un marchingegno sostanzialmente brillante che alleggerisce i temi senza mai celarli.
Anche musicalmente il linguaggio si arricchisce rispetto al Barbiere o all’italiana. Sebbene la partitura abbia attinto a man basse da tutta la produzione precedente al punto che si potrebbero tranquillamente canticchiare frammenti di arie più vecchie sopra queste più nuove, appaiono elementi fortemente innovativi che segnano l’ingresso in una nuova stagione artistica. Parrebbe che più volte il compositore pesarese abbia esplicitamente richiesto a Jacopo Ferretti di rivedere versi già scritti per adeguarli ad una sensibilità musicale nuova, basata sull’alternanza tra sospesi e crescendo. Questo linguaggio fortemente contrastato è anche la chiave del successo di quest’opera che trova piena compiutezza nella visione registica pop – a tratti surrealista – di Emma Dante.
L’attivismo registico non nasconde l’impegno sociale, evidenziando temi scomodi con giocosa ferocia. Adeguando lo sguardo allo scintillio della festa, dopo l’abbaglio appaiono nitidi degli elementi disturbanti che arricchiscono e rafforzano il messaggio dell’opera. Vale la pena spendere qualche parola. Gli eventi si sviluppano imperniandosi su una violenta competizione. Una sorta di Homo homini lupus in cui il più debole sarebbe destinato a soccombere, se non entrasse in campo l’amore fiabesco ad attenuare la visione materialistica.
Le scenografie e i costumi strizzano l’occhio ai dipinti di Ray Caesar. Gli “elementi disturbanti”, come li definisce la regista, sono gli opportuni paramenti per evidenziare la ferocia intrinseca che si cela dietro alcuni rapporti, sia di genere che – in modo più ampio – dell’intera umanità.
I protagonisti, Don Ramiro e Angelina, sebbene con posizioni diverse, sono isolati ed avulsi rispetto a questa famelica dinamica. Qui appare la trovata teatrale più riuscita, le bambole meccaniche che affollano la scena non sono altro che dei surrogati antropomorfi che riempiono la solitudine dei due.
Ma è tutto effimero ed artificiale. La chiave a molla posta sulle loro schiene deve essere ricaricata di continuo per non farli fermare.
Il gioco si capovolge proprio dopo l’incontro di due diverse emarginazioni, quella di un principe che non riesce a trovare verità di sentimenti nel suo mondo patinato e quella di una sorellastra bullizzata in famiglia. Questo capovolgimento viene magnificato dall’inversione dei personaggi: Dandini che da servo diventa Principe, Cenerentola da sguattera a dominatrice del ballo. È un vortice di eventi che, poco alla volta, erode i rapporti di forza. Questa inversione scatena la ferocia di chi non si rassegna ad abbandonare una posizione dominante. Al ballo, le pretendenti spose del principe, in competizione l’una con l’altra, entrano armate di mitra e pistole che usano nel delirio pulp-grottesco-comico che chiude la scena.
In questa visione violenta e meschina, la figura di Alidoro emerge come deus et machina, manovrando i fili con sagacia affinchè i due possano innamorarsi. Questo amore, però, non porta ad un mutamento della natura selvaggia dell’uomo. Il perdono che Cenerentola concede a Don Magnifico, Tisbe e Clorinda è legato ad una loro sottomissione. I tre, nell’ultima scena diventano pupazzi meccanici nelle mani di Angelina per dare compimento alla completa inversione dei rapporti di forza.
La storia termina qui e non ci è dato sapere se la vittima, forte di questa nuova posizione dominante, si tramuterà nella nuova aguzzina. Mutatis Mutandis.
Ma la chiave del successo non è solo nella regia, bensì nella coesa bravura di tutto il cast. La scrittura rossiniana ha bisogno di un certo atletismo vocale. I fonemi, utilizzati come orchestra generano incastri di rara bellezza. Non emerge solo il singolo cantante ma anche e soprattutto le reciproche interazioni. Tutto ciò non sarebbe possibile senza una compagnia all’altezza.
L’Angelina di Chiara Amarù è una luce costante in mezzo al palco, la voce è brillante ed agile, ricca di coloriture che danno spessore al personaggio. Bellissimo il suo Nacqui all’affanno del secondo atto. Di certo – come nel Un soave non so che– avrà beneficiato del sodalizio con Antonino Siragusa, certezza rossiniana da molti anni. Il suo Don Ramiro è di un’eleganza a principesca.
Arriviamo agli ai non meno protagonisti. Vincenzo Taormina è un Don Magnifico che magnifica il suo ruolo con la padronanza del registro buffo. Nicola Alaimo è un Dandini tanto imponente d’aspetto quanto agile nella voce. Fanno il loro le due sorellastre: Aloisia Aisemberg e Sonia Ciani, rispettivamente Tisbe e Clorinda.
Molto matura la concertazione di Nikolas Nägele, ottimamente sostenuta da una robusta prova dell’Orchestra del Comunale di Bologna e del Coro diretto da Gea Garattini.
La Cenerentola è lo spettacolo ideale per le feste natalizie. Ci racconta un lieto fine, ricordandoci di tenere a freno gli egocentrismi a favore di un mondo più inclusivo.
Ci sarà riuscita anche Angelina o con il tempo si sarà tolta qualche sassolino dalla scarpa?
Io, un’idea me la sono fatta: Chiedere a Tisbe o Clorinda per conferma.
Ciro Scannapieco
Foto Casaluci-Ranzi