L’Adriana Lecouvreur bolognese del 16 Novembre è un’ode all’arte di Arrangiarsi

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Inizio con brivido. Non è mai un può presagio avere il sovrintendente sul palco a pochi minuti dall’inizio della recita.
Si pensa – a ragione – che la visita possa essere foriera di chissà quale cattiva notizia. Abbiamo pensato lo stesso Martedì 16 Novembre 2021 nel vedere Fulvio Macciardi sul proscenio, in tanti in platea abbiamo temuto il peggio.
Ed in effetti, buone notizie non sono state. Avere Luciano Ganci Knock Out, fermato da un malanno di stagione e con un solo cast a disposizione, è grana non da poco.  Fosse stato un ruolo verdiano o pucciniano, sarebbe stato più semplice organizzare una sostituzione last second. Trovare un Maurizio pret a porter, ne siamo certi, avrà fatto passare parecchi brutti quarti d’ora agli organizzatori. Eppure ci sono riusciti.
Ma un’opera che nasce dalla penna di un napoletano – sebbene d’adozione- come Francesco Cilea, potrà sempre contare – almeno per predestinazione – sull’aiuto di una soluzione estemporanea. Anche la recita bolognese non sfugge al benevolo Karma e, con un po’ d’arte di arrangiarsi, l’Adriana Lecouvreur è andata in scena.  The show must go on.
Angelo Villari, poi, è un buon piano B. Ha esperienza da vendere e conosce bene il ruolo che ha portato in scena al Massimo di Palermo sotto la direzione del Maestro Daniel Oren. Curriculum di tutto rispetto.
I problemi da risolvere, però, non sono di certo finiti qui. Sebbene il catanese non sia l’ultimo arrivato, non può essere semplice catapultarlo all’interno di una regia molto elaborata.
Qui l’arte di arrangiarsi viene sublimata da una trovata certamente funzionale. Mentre il tenore canta a bordo scena, Tommaso Pioli della scuola di teatro Galante Garrone ne recita le movenze in scena. Ammetto di aver sgranato gli occhi e storto il naso all’annuncio della trovata.
Ma in fondo, cos’altro avrebbero potuto inventarsi? Dando un colpo alla botte ed uno al cerchio lo spettacolo è stato rappresentato. E- diciamolo – “l’arrangiamento” ha anche funzionato.
Bravi loro. Non era semplice venirne fuori.
Innanzitutto per la trama intricata, narrante la feroce competizione amorosa tra Adriana e la Pricipessa di Bouillon per il bel Maurizio di Sassonia. In secondo luogo per la brillante ma elaborata regia di Rosetta Cucchi.
Infatti la regia – di certo uno dei punti di forza della recita- risulta molto lavorata, come avevamo già avuto modo di constatare nel “film-opera” proposto dalla Rai lo scorso Marzo (ancora disponibile su Rai-click).
La visione teatrale, sebbene debba privarsi del dettaglio consentito dallo strumento cinematografico, ne conserva tutta la bellezza e risulta addirittura sublimata dalla prospettiva di sala.
Ogni atto ha il suo carattere. Tutte le scene sono racchiuse all’interno di un emiciclo mobile.
Nel primo c’è il Foyer di un teatro (probabilmente la Comédie Francaise) mentre gli attori si preparano alla messinscena. Bellissimo è il castello del secondo atto, dove il centro dell’azione passa dall’esterno all’interno, facendo calare dall’alto il prospetto della residenza che svela e cela le stanze interne come si fosse dinanzi ad una gigantesca casa delle bambole.
Nel terzo le paillettes di un club anni trenta accolgono la meravigliosa invenzione coreutica con le acrobazie di Davide Riminucci e la danza di Luisa Baldinetti.
Nell’ultimo – e più concettuale – atto, la regia gioca proiettando sull’emiciclo la fantasia di un’Adriana che immagina che Minchionet sia l’amato Maurizio. Funziona tutto.
La concertazione di Asher Fisch – invece – desta qualche perplessità. Per carità, siamo di fronte ad una direzione robusta, quasi muscolare, forse troppo. La musica prende letteralmente a botte alcuni degli attori che non riescono mai ad uscire, rendendo l’ascolto molto faticoso.
Parliamo soprattutto Kristine Opolais, che interpetra il ruolo eponimo. In realtà non si riesce a capire se sia più un eccesso di vigoria sinfonico, un’ammissione di debolezza vocale o la combinazione di entrambi i fattori.
Quel che lascia alle orecchie, la lettone lo regala agli occhi. L’interpretazione è impressionante e l’impatto nel tessuto registico è mastodontico, nonostante balli da sola un passo a due (per la già citata assenza di Ganci).
Le carenze della Opolais vengono sottolineate dal Michonnet di Sergio Vitale che, invece, brilla per una voce potente e dal fraseggio sicuro. Non brilla nemmeno la rivale in amore. La principessa di Buillon interpretata da una meravigliosa Veronica Simeoni, alterna momenti ottimi (come nel terzo atto) ad alcune incertezze. Almeno non scegliamo “l’altra”. Gli altri fanno tutti “il loro”: Roman Dal Zovo, nel ruolo del Principe di Boullon non esalta ma non delude, così come l’Abate di Chazeuil di Gianluca Sorrentino, il Quinault di Luca Gallo, il Poisson di Stefano Consolini, la Jouvenot di Elena Borin e la Dangeville di Aloisa Aisemberg.
Dell’orchestra del TCBO abbiamo già detto. L’interpretazione è precisa e pulita. L’eccesso di nerbo è una scelta di direzione che forse non ha premiato la recita ma non ha fatto sfigurare la formazione bolognese. Impeccabili tutti gli interventi del coro diretto dal maestro Gea Garattini Ansini.
Tanti altri avrebbero cancellato lo spettacolo, A Bologna no. Anche qui è stata appresa l’arte di arrangiarsi. Francesco Cilea – ne siamo certi – avrebbe approvato.

Ciro Scannapieco

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