Edith Bruck: “Il pane perduto”

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 “…in lager l’uomo è disperatamente ferocemente solo” (Primo Levi _ Opere vol I_I sommersi e i salvati pag.89 – Einaudi 1958)
“….Oggi, questo oggi, in cui sto seduto a un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute” (ibid. – Se questo è un uomo- pag.106)

Non si può affrontare la lettura dell’opera di Edith Bruck prescindendo dalle due citazioni di Primo Levi poste in apertura di queste mie riflessioni su “Il pane perduto”. La pregnanza del loro senso si condensa nelle parole che alludono alla ferocia dello sterminio come sistema, nella solitudine del viverlo, nell’ incredulità di quelli cui si racconta l’accaduto  fino a dubitare della fondatezza del proprio racconto.
E come in Primo Levi, il registro narrativo di Edith, pur nel suo stile lucido ed ineccepibile ci immette, senza intermediazioni stilistiche, proprio nel cuore della “solitudine feroce “,della disperazione più cupa a testimoniare quanto accaduto.
E proprio l’atto del testimoniare, per sua natura, necessita di parole “chiare e distinte”, pur euristiche, nella loro essenzialità comunicativa.
Troppo al di là di tutto è l’esperienza vissuta nei campi di sterminio e\o detenzione dei nazisti, che ancora oggi senza quella specifica denotazione, continuano ad esistere sotto altri cieli e sotto altre bandiere.
E la narrazione di questo “al di là”, pur autoreferenziale ed insieme argomentativa, rende ancor più crudamente l’abisso della razionale e fredda costruzione del male assoluto, non supportato da qualsiasi fondamento storico, filosofico, religioso, scientifico.
E il contenuto stesso di questa narrazione, in cui la parola, le parole connesse e legate in frasi e periodi lucidi e rigorosi, produce nel lettore un impatto emotivo “a freddo”, che consente di cogliere esattamente il senso della “banalità del male” evocato da Hannah Arendt: la costruzione di un sistema politico-ideologico autogiustificativo nella sua pretestuosità e che è appunto brutale per nascondere i suoi banali e falsi presupposti. Si sa,poi che nell’ imminenza della caduta della Germania nazista, gli stessi guardiani dei campi, nel tentativo di cancellare  le testimonianze visibili dello sterminio ,deridessero i superstiti sfidandoli a raccontare tutto : tanto nessuno li avrebbe creduti perché non avrebbero avuto prove!!
E per molto tempo nessuno ha saputo ed ancora oggi qualcuno nega e lancia accuse di impostura a chi testimonia.
Ma l’ opera di Edith va oltre la sua esperienza di deportata perché ci narra anche del dopo, del suo travagliato reinserimento nella vita sociale in cui nulla è stato facile: troppo deboli i più dal punto di vista economico e troppo derubricati da tutto per ricollocarsi naturalmente nei loro ruoli precedenti, perché i diversi stati erano cambiati nel loro nuovo assetto di pace e, se pur democratici, l’ accoglienza e l’ integrazione  spesso incontravano (ed ancora oggi ciò è vero) forti resistenze. Il tentativo di integrazione nello stato di Israele – peraltro nato non senza dolori fin dalla sua fondazione ed ancora oggi causa e conseguenza di tensioni internazionali – risulta tanto difficile da spingere Edith sopravvissuta a nuove migrazioni e ad esperienze di inserimento sociale e lavorativo spesso deludenti, se non umilianti. E è proprio questo il fulcro della sua opera: non solo la fortuità della sua sopravvivenza, e quindi il conseguente retaggio, ma soprattutto la difficile e problematica  ricerca e conquista di una ricollocazione dignitosa nella normalità del vivere in nazioni a democrazia realizzata.
Il titolo dell’opera “Il pane perduto” evoca e rimanda a ciò che di più irreparabile può accadere a chi vive della stretta essenzialità: perdere il pane perché non c’è più nessuno ad infornarlo quando è a giusta lievitazione! E, ancestralmente, il pane è esso stesso simbolo ed antonomasia della vita.
Tanto lo è che è riproposto azzimo e salvifico nella tradizione ebraica, come sostanza del Cristo nel cristianesimo, e come legame inscindibile tra tutte le koinè. L’opera si conclude con una drammatica e struggente lettera a Dio nel suo silenzio, quando è chiamato come padre dalle vittime innocenti e rimanda alla cupa disperazione della “oscura noche” di San Giovanni della croce” o al Cristo spirante che invano Lo invoca.
Questo e molto altro sta nell’ opera di Edith!
Oggi il compito che si è assegnato è quello di testimoniare; a noi spetta il dovere di far sì che la dimenticanza non ricopra con l’oblio l’esile e continuo filo della memoria.
A conclusione un’ultima nota: la foto di copertina rende visibile la “feroce solitudine” evocata da Levi e da lei vissuta.

Guglielmina Di Girolamo

(Circolo di Lettura della Bioblioteca Comunale “Giordano Bruno” di Roma)

Edith Bruck  Il pane perduto  La nave di Teseo 2021 pagg 126

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