A quarant’anni dal terremoto che devastò l’Irpinia e gran parte della Campania, la mostra SISMA80 – 23 novembre ore 19.34, allestita presso il convento partenopeo di San Domenico Maggiore (dove resterà visitabile fino al 31 marzo 2021), rievoca la catastrofe attraverso un percorso espositivo di oltre cento immagini.
Cento scatti d’epoca, opera di oltre venti fotografi, da cui sono ripercorse le fasi del dramma.
Anzitutto l’orrore: montagne di pietre, putrelle e calcinacci lungo i bordi del cosiddetto Cratere – l’epicentro della scossa, nel cuore avellinese – che vomitano corpi e grondano sangue; figure distese con le fragili sembianze del sonno, la polvere addosso, le braccia penzoloni; sudari improvvisati su cui poggiano occhiali e sigarette (corredi funebri tanto minuscoli quanto solenni, che ricordano quelli di una sepoltura egizia); bare agganciate ai tettucci delle automobili come nei peggiori scenari di guerra.
Quindi, mescolato alla morte, lo sgomento dei vivi: la nostalgia di chi, stringendo un fazzoletto, veglia le rovine un tempo abitate; la rassegnazione di chi va incontro all’esodo senza sapere se farà mai ritorno; l’espressione esausta di chi, pur essendo scampato al crollo, non possiede più nulla se non un fagotto di stracci, un tostapane salvo chissà come, un barattolo di melanzane sott’olio.
E poi la lotta per la sopravvivenza: ponteggi che ingabbiano architetture pericolanti, tra cui il Palazzo dello Spagnuolo o il Castel dell’Ovo, laddove intanto prosegue imperterrita la vita; container, accampamenti e rifugi provvisori – inclusi treni e autobus – sui quali incombe l’ombra deprimente del degrado; gli anonimi edifici eretti come moniti alla solitudine, ad esempio presso l’area puteolana, simbolo di una ricostruzione mai ultimata. Ma anche lampi di gioventù e innocenza, che incarnano quell’inesauribile tempra umana, ancor più florida nelle avversità, a cui si affiancano i cortei, le proteste e le rivendicazioni rabbiose, talvolta dissacranti (secondo il classico spirito partenopeo), contro gli squilibri e le inettitudini del potere: “Il terremoto à castigato i poveri” si legge su un cartello; “Zamberletti (nominato Commissario Straordinario) e compagni non dimenticate le 4 giornate di Napoli, per voi ne basta una!!!” svetta su un altro.
Gli obiettivi fotografici chiamati a raccolta per SISMA80 sono gli stessi che, un quarantennio fa, inquadravano i luoghi del disastro.
Luciano Ferrara (classe 1950), tra i maggiori fotoreporter italiani, da sempre sposato alle cause politiche e sociali, si è dedicato per oltre un anno al progetto. Il piano originario prevedeva che SISMA80 aprisse proprio a novembre 2020, in concomitanza con l’anniversario del terremoto, ma il Covid ci ha messo lo zampino. Si è dunque preferito aspettare il 12 febbraio 2021, quando l’emergenza sanitaria ha reso possibile allestire la mostra nel pieno rispetto degli ultimi DPCM.
Ed ora, presso il convento di San Domenico, l’attesa è infine ripagata: la sala del Grande Refettorio, con le sue vaste dimensioni e le pareti affrescate, rende pienamente giustizia all’iniziativa promossa dall’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli.
Accanto agli scatti dello stesso Ferrara, vediamo esposte le fotografie d’importanti maestri, come Luciano D’Alessandro e Mimmo Jodice, considerabili l’alfa e l’omega della mostra. Due approcci diversi, parimenti necessari, nei confronti del medesimo soggetto: da una parte lo sguardo gettato urgentemente sulla voragine; dall’altra l’intuizione poetica, pregna di simbolismo.
“Entrambi s’inseriscono nell’azione, ma con l’etica del vero fotoreporter: stare a tre metri dalla morte, rispettando questa distanza”, spiega Ferrara. “Dei due ho inserito le stampe originali, risalenti all’Ottanta. Sono foto vintage molto preziose. Degli altri autori, alcuni dei quali non più in vita, ho invece effettuato nuove stampe. Non a caso la difficoltà principale, durante l’allestimento di SISMA80, è stato accedere agli archivi privati delle famiglie. Lì ho dovuto scegliere i negativi, scansionarli, effettuare la postproduzione, e così via. Essendo tutto analogico, è occorso molto tempo.”
A seguire, lungo la fila di pannelli, incontriamo proprio quelle testimonianze accumulate da un’intera generazione di fotoreporter: Massimo Cacciapuoti, Toty Ruggieri, Annalisa Piromallo, Gianni Fiorito, Mario Riccio, Giuseppe Avallone, Guido Giannini, Pino Guerra, Sergio Del Vecchio, ma anche agenzie fotogiornalistiche quali Fotosud, Associazione Archivio Carbone e Pressphoto.
“C’è uno studio che giustifica la disposizione delle foto”, chiarisce Ferrara. “Il colore, ad esempio, avrebbe spezzato l’unità della mostra, e per questo tutte le fotografie sono in bianco e nero. Io ho tirato delle somme, ma la scelta, da parte dei vari fotografi, è stata del tutto autoriale. Così possiamo parlare di mostre personali all’interno di una mostra collettiva.”
Quindi, eretto sul fondo della sala, un pannello raggruppa numerosi titoli e articoli provenienti dal Mattino, insieme a due tabelle dove si condensando le raggelanti cifre del terremoto.
“Ho scelto Il Mattino per una ragione molto semplice. Non solo perché si trattava del principale quotidiano cittadino, ma soprattutto perché, in quegli anni, a dirigere il giornale c’era il grandissimo Roberto Ciuni, mentre D’Alessandro dirigeva la fotografia. Ciuni chiuse ogni altra redazione del Mattino, ed inviò tutti a lavorare sul Cratere. Inevitabile che fosse prodotto molto più materiale.”
Nel Piccolo Refettorio è infine posta una videoinstallazione che, oltre a far ascoltare la voce dei fotografi esposti, ripercorre il lavoro affrontato per SISMA80, dalla scelta delle immagini alla stampa del magnifico catalogo.
Ma cosa rende la fotografia tanto empatica verso questo genere di tragedie?
Al di là delle inquadrature, pervase di un raggelante realismo, la risposta può forse provenire da alcune considerazioni sul metodo necessario alla creazione di un fotogramma.
Tempo e fotografia viaggiano di pari passo, tanto per la responsabilità storica che attribuiamo alla fotografia, quanto per la tecnologia impiegata dalla macchina fotografica.
Ogni scatto presuppone, infatti, una velocità spesso uguale o inferiore al secondo.
Il tempo di posa, regolato dall’otturatore, varia in base all’apertura del diaframma e alla sensibilità della pellicola, e l’equilibrio tra questi valori determina il successo o il relativo fallimento dello scatto (almeno sul piano teorico, poiché gli effetti ricercati dal fotografo non di rado possono esulare dalle regole tradizionali).
Come due palpebre meccaniche, le lamine dell’otturatore dapprima scorrono verticalmente, lasciando filtrare la luce sulla pellicola o sul sensore luminoso; poi tornano a serrarsi nella posizione iniziale. Un processo di cui nulla trapela all’esterno della macchina, se non il celebre “click” emesso dall’otturatore, suono per antonomasia di tutta la fotografia.
Per questo motivo il tempo di posa è anche detto “tempo di esposizione”. Tempi più veloci fissano sul fotogramma un’immagine pressoché cristallizzata; tempi più lenti espongono la pellicola alla luce per un intervallo maggiore, con evidente incremento delle informazioni raccolte. A mutare, insieme al tempo, è il movimento percepibile nell’inquadratura, che aumenta proporzionalmente alla lentezza del tempo di posa, e che risente non solo del soggetto o dello scenario inquadrato, ma anche della stessa mano usata per scattare.
Ciò evidenzia come, prima di catturare la singolarità di un istante, la fotografia affronti sempre un dilemma: estromettere o includere il moto, sotto forma di flusso confuso e sfocato, dentro quell’unica inquadratura che andrà componendo. Ed è una scelta paradossale, oltre che rischiosa, poiché il movimento rappresenta la violazione del confine imposto dal fotogramma – è pura violenza visiva nello spazio di un rettangolo immobile. Ne derivano effetti a dir poco perturbanti sullo spettatore. Usato come tecnica espressiva, il cosiddetto “mosso” fotografico evoca la sbavatura, il turbamento e la contaminazione, delineando una sorta di stadio allucinatorio prossimo allo svenimento. E il secondo, con le sue frazioni infinitesimali (da ½ fino ad un 1/8000), essendo misura basilare del tempo, diviene allora unità del tempo di posa; ma diviene anche strumento per sorvegliare il “mosso” dell’immagine, ossia il suo grado di rottura.
Si può dunque capire la ragione per cui la fotografia, nel calderone delle arti, sia quella più affine a una certa branca della scienza, che è appunto la sismologia: entrambe ammettono il movimento come violenza.
Il secondo, equivalente alla sessantesima parte di un minuto, se considerato sul piano sismologico, è infatti unità che scandisce il rombo sotterraneo, la frattura improvvisa, la distruzione cieca.
Bastano novanta secondi perché un paese si trasformi in un cumulo di macerie; perché quattrocentomila persone vengano di colpo condannate allo sfollamento, ed altre tremila restino sepolte e uccise sotto i detriti; perché un’intera regione, preda delle crescenti mire camorristiche, piombi nel caos amministrativo e da quel momento finisca deturpata.
Novanta secondi sono bastati, il 23 novembre 1980, alle ore 19.34, perché l’inferno andasse a vivere in Campania.
Tanto nella fotografia quanto nella sismologia, insomma, il tempo implica lo spostamento, ed è un legame che in entrambi i casi poggia sull’imprevedibilità, sul climax, sul sussulto esponenziale. Così, come qualsiasi operazione di salvataggio, anche la fotografia accorre al termine del disastro tellurico, e non può che restituirne un’immagine a posteriori. Ma una certa particolarità consente di recuperare lo svantaggio: conoscitore del moto, sulla cui soglia giace sempre in attesa, il fotografo coglie il senso più profondo della violenza appena trascorsa, e sa intuitivamente mostrarlo nel modo migliore.
Forte di questa convergenza, SISMA80 s’impegna ancora una volta a raccontare il terremoto irpino, ferita mai davvero rimarginata nonostante il lungo tempo trascorso.
Emanuele Arciprete