«C’è un momento che si ripete con uniforme regolarità come fosse un’occorrenza, e che perlopiù si presenta al termine dei miei concerti. Ormai è diventata una specie di liturgia, una cerimonia in cui un po’ tutti, tutti quelli che se ne intendono, si ritrovano a domandare più o meno cautamente una mia opinione sulla cosiddetta crisi della musica classica e dell’opera lirica». A parlare é Maurizio Colasanti, direttore d’orchestra ed autore del libro “La musica è sfinita”, edito da ExCogita e pubblicato in prima edizione a maggio 2019; il saggista prosegue: «Qualcuno tra i più arditi azzarda nella domanda già un tentativo di spiegazione che ha spesso il sapore della sentenza inappellabile. Molte soluzioni proposte hanno l’aspetto di un vero e proprio accanimento terapeutico intorno al capezzale di un malato ipocondriaco, molto suggestionabile; mentre altre rappresentano una visione velleitaria e fuori dalla storia. Sono, ahimè, molti quelli che credono di aver individuato la cura decisiva; peccato che nessuno abbia ancora compreso davvero a fondo quale sia il malanno. Gli sbadati hanno ridotto la questione a un problema di mancanza di pubblico mentre la vera questione è la mancanza di credito».
È severo il giudizio di Colasanti sul Novecento, nell’analizzare il quale, l’autore coglie i momenti di discontinità, non tutti in direzione evolutiva:
«L’alba del Novecento ha rappresentato il punto in cui un’intera architettura sonora si è arenata al cospetto della modernità. Dopo secoli di progresso, la musica si è improvvisamente incagliata e non ha più prodotto, come avrebbe voluto e come sarebbe stato giusto, presso il pubblico e nemmeno presso le élite culturali, un sistema comunicativo ed estetico che riuscisse davvero a prendere il posto di quello precedente».
Sotto i colpi della potente dodecafonia teorizzata da Arnold Schönberg negli anni venti, il secolo breve ha visto assai presto, andare in crisi un intero sistema, quello tonale, che dal 1600 aveva costituito l’unico possibile, ed accentuarsi quella divaricazione profonda tra musica d’arte e musica industriale o di consumo, complice l’avvento delle nuove tecnologie.
Smembrata dalla scuola di Vienna, la musica colta si è ritrovata nel secondo Novecento come un naufrago, “sfinita dal mare delle possibilità” e, da un certo punto in poi, si è avvitata in un percorso di continua genesi che ha prodotto un’incessante mutazione poetica e formale. In questo continuo mutamento che l’autore definisce “periodo neoplastico” della musica, l’eccessivo personalismo si è trasformato in una sorta di “narcisismo musicale” che ha avuto come unico risultato il “conio personale e solipsistico” del compositore, in attesa inutilmente di una qualche “baronale” legittimazione.
Si è evidenziata a questo punto la difficoltà da parte del pubblico di cogliere fino in fondo gli aspetti morfologici e sintattici della struttura musicale che il progresso ha reso desueta da una parte e ipercomplessa dall’altra.
Il tentativo imprudente della musica nell’ultimo secolo di esprimere altro dal sonoro, veicolando messaggi sociali e politici, argomenta Colasanti, ha fatto il resto affrettandone l’obsolescenza; il sistema della rappresentazione, orientato sui criteri del consenso non ha rischiato poltrone e si è rifugiato nel territorio rassicurante del compiacimento estetico autoreferenziale o nel marketing del consumo.
Le esperienze del jazz e del rock sono riuscite, nonostante tutto, a farsi largo con un linguaggio inconfondibile e non interrompendo del tutto quel rapporto tra compositore e musicista amatoriale che la prassi esecutiva colta aveva reciso di netto, affidando le sue “pratiche misteriche” a sacerdoti comunicati ad hoc.
«Il sistema educativo, ahimè, anziché fungere da fucina e incoraggiamento per l’approfondimento e la ricerca delle ipotesi artistiche – osserva Colasanti – si è perlopiù arenato davanti alla montagna impervia della modernità, autocondannandosi all’anacronismo». La nascita dei mezzi di riproduzione e di diffusione di massa, sotto la spinta del nascente mercato della musica industriale, ha fatto in modo che l’età presente, in termini musicali, adottasse quello che l’autore definisce: «un prodotto semplificato che ripropone in maniera ripetitiva, e in forma spesso elementare, un linguaggio logoro e resistente, scaturito da una estrema riduzione formale e da una pressoché identica successione tonale».
Un’interessante ed esaustiva disamina, carica di significativi spunti, di suggestioni e, direi, di provocazioni, sullo stato in cui versa la musica ai giorni nostri, appare il saggio di Colasanti.
Un centinaio di pagine di avvedute considerazioni di estetica e di filosofia della musica che, dalle premesse, fanno scaturire conclusioni tutt’altro che scontate. Inconsueti e, per certi versi, curiosi gli ascolti proposti con la attualissima modalità touchless del QR code, collegamento ipertestuale interattivo su supporto cartaceo.
L’autore si pone a scrivere con un solo desiderio: riaprire un confronto pericolosamente sedato, incontrare un’incognita, risolvere un’asperità, sostenendo però che la musica contemporanea rappresenti “l’unica cosmogonia dei suoni che possiamo adottare per modulare la modernità”, essa, per farsi icona sistemica, deve riuscire a plasmare il sublime della modernità con lo strumento della libertà creativa, anche fomentando, se del caso, l’eccesso e l’intemperanza.
Maurizio Colasanti ha alle spalle un’intensa carriera di musicista, diplomatosi con il massimo dei voti e la lode al conservatorio di musica di Pescara, ha inoltre condotto studi umanistici in campo filosofico e linguistico laureandosi in filosofia teoretica con il massimo dei voti e la lode all’Ateneo abruzzese G. D’Annunzio.
Mariapaola Meo