Continuare a fruire della bellezza e della condivisione della musica e dell’arte tutta, nel rispetto di quelle che sono le norme sanitarie imposte dal DPCM 17 maggio 2020 n. 194 è certamente possibile, a maggior ragione in una location che può declinare i suoi numerosi spazi in base alle più diverse esigenze e che aveva già fatto dell’esclusività la sua cifra distintiva.
Così il 29 giugno Villa di Donato ha riaperto le porte al pubblico di affezionati ospiti e la sua rassegna Max 70, diretta da David Romano, ha potuto riprendere da dove si era interrotta, ovvera da un programma già in cartellone prima dell’avvento del covid.
La corte antistante la deliziosa facciata in stile neoclassico di quello che fu un casino di caccia ha infatti ospitato il prezioso duo di Diego Romano al violoncello e Massimo Spada al pianoforte, impegnati in un programma cameristico di rara grazia ed efficacia.
La quinta ed ultima, e forse la più profonda e più bella, delle Sonate di Beethoven per pianoforte e violoncello – in re maggiore, op. 102 n. 2 è per così dire ascrivibile al “terzo stile” beethoveniano, concetto esegetico-critico che fu subito contestato ma che mantiene, tuttavia, un suo concreto fondamento.
L’autore, attingendo alla tecnica contrappuntistica che costituisce il bagaglio di ogni compositore, introduce nello stile classico il principio barocco della polifonia.
La suddivisione in tre movimenti secondo lo schema antico della composizione sonatistica “minore” è nella successione: Allegro – Adagio – Allegro.
Si tratta di un brano meditativo che procede nel senso di un’ascensione emotiva e formale e in cui, però, il tematismo classico si fa essenziale ed asciutto.
Il violoncello di Diego Romano ha assolto egregiamente il compito assegnatogli di strumento “concertatore” e dialogante, espressivo quasi struggente nell’Adagio con molto sentimento d’affetto, che farebbe quasi presupporre un ritorno a quella “psicologia dell’ Adagio” presente nel Beethoven tra prima e seconda maniera. Se non fosse per il fatto che la potente tensione catalizzi l’attenzione in quel Finale che rappresenta certamente il momento di decodificazione dell’intero componimento.
L’impegno contrappuntistico dell’autore è per questo totale nell’Allegro fugato finale.
La Sonata per violoncello e pianoforte op. 6 in fa maggiore risale al 1883 e, come tutte le composizioni antecedenti al 1885, si colloca nel solco della tradizione classico-romantica. Fino al 1890 sappiamo che la produzione di Strauss fu essenzialmente strumentale e cameristica. Precocità ed eccezionalità di talento per il giovane compositore ed evidente l’ispirazione, che in lui fu pressoché costante, a Mendelssohn. La sonata è in tre tempi e la scrittura della parte pianistica molto massiccia, affidata al talento di Massimo Spada, richiama l’orchestra, evocando il concerto più che la sonata.
Ma il piglio deciso è prettamente straussiano, “dongiovannesco“ diremmo a citare il poema sinfonico che rappresenta la sua firma per eccellenza.
Il discorso musicale si svela strettamente intrecciato fra gli strumenti e, nel lungo arco melodico dell’andante, primeggia il violoncello impiegato in tutte le sue risorse. L’ Allegro vivo conclusivo, nel suo frastagliato lavorio ritmico, alterna a questo un tema più lirico.
Impeccabile l’ospitalità dei padroni di casa in un clima davvero godibile di salotto d’altri tempi.
Mariapaola Meo