In un mondo infecondo e nebbioso, colmo delle macerie umane, dove arranca una civiltà ormai estranea a se stessa, c’è un luogo che resiste avvolto dal silenzio. Il suo territorio appare recintato, pattugliato, e tuttavia ancora vivo, ancora portatore di una sacralità a cui si sottomettono le selve e i fiumiciattoli sparsi tra i villaggi disabitati.
Quel luogo ha un nome inquietante nella sua semplicità: la Zona.
Percorso da un’energia ignota, di probabile origine extraterrestre, è anche il posto più pericoloso sul pianeta, dove le normali leggi della fisica appaiono inspiegabilmente sovvertite, e i rischi mortali si celano in agguato senza poter essere previsti. Non a caso varie carcasse belliche, come un monito sulle alture, trasmettono la propria impotenza rispetto a una forza infinitamente più grande.
Chiunque voglia addentrarsi nella Zona, deve assoldare guide illegali: uomini ambigui e reietti, chiamati Stalker. Soltanto loro sembrano conoscere le vie sicure che conducono nell’epicentro del territorio, dove una miracolosa Stanza, se varcata da chi sia davvero infelice, permette di realizzare qualunque desiderio nascosto nel profondo. A uno di questi uomini (Aleksandr Kajdanovskij), padre di una bimba mutante, si rivolgono due individui, uno Scrittore e un Professore, per raggiungere il cuore della Zona e soddisfare le rispettive ambizioni di natura torbida e volubile.
Sette anni dopo Solaris (1972), riadattando il breve romanzo Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij (anche co-autori della sceneggiatura), il regista Andrej Tarkovskij s’immerge in una fantascienza minimalista, intrisa d’umanesimo e spiritualismo, lontano dagli approdi filosofico-estetici di Kubrick in 2001 – Odissea nello Spazio (1968).
Senza ricorrere ai toni spettacolari del collega statunitense, Tarkovskij proietta la dimensione narrativa nei corpi dei suoi personaggi, amplificandone il simbolismo mediante una pacatezza lirica, una quiete e una staticità sempre fedeli allo spazio circostante.
Lo dimostrano i movimenti progressivi e spesso impercettibili della macchina da presa, le morbide carrellate, i long take, le lentissime zoomate che espandono o restringono il quadro dell’immagine con una delicatezza tale da sfuggire allo spettatore ipnotizzato.
Sul piano cromatico, da un intenso e contrastato bianco e nero, si passa a una sfumatura di seppiato, e quindi a una serie di colori velati – ma nulla più di questo e, soprattutto, mai contravvenendo a quell’armonia che ha nella sobrietà la propria nota dominante.
Ciò non significa che il conflitto non esista. Al contrario, le tensioni bruciano nella psicologia arida e frustrata del Professore (Nikolaj Grin’ko) e dello Scrittore (Anatolij Solonicyn), mentre l’incomunicabilità della bellezza, l’inspiegabilità della fede, il triste e poetico misticismo dello Stalker lo rendono, in sostanza, l’ultimo sacerdote al quale spetti tramandare un culto sepolto e temuto.
Non orbitiamo, come in Solaris, a bordo di una stazione spaziale, dominio del nostro inconscio, né ci muoviamo su un Pianeta-Dio con cui instaurare un ignaro contatto.
Il nostro interlocutore non è più un Nous creatore e generoso, ma un “Deus sive Natura”, ossia una divinità onnipresente, tanto austera e sanguinaria quanto elargitrice di doni immensi, con lo stesso rigore del Dio ebraico.
Mentre su Solaris le reliquie umane non esistevano ancora, o venivano inghiottite e plasmate dal magma cerebrale alieno, all’interno della Zona i relitti della civiltà sono invece sopraffatti, nascosti sott’acqua, nelle fenditure da cui irrompono turbinose cascate, o lungo i pavimenti di quelle che un tempo furono chiese e che ora giacciono sommerse dallo stagno e dal muschio.
La volontà della Zona è dunque quella di preservare consumando – di purificare nel sacrificio. E lo Stalker, accettata questa legge metafisica, giunge al punto di venerarla, senza chiedere altro in cambio se non il denaro con cui mantenere la propria famiglia.
La speranza e i sogni che trovano accoglienza nel tempio, bastano infatti a soddisfare lo strano sacerdote, almeno fin quando, in preda al dolore, egli non scopre quale sia la verità: il genere umano, ormai vittima della propria arroganza intellettuale, non crede più in nulla e anzi ha terrore del suo stesso desiderio.
La narrazione sfilacciata, dilatandosi oltre ogni classica struttura temporale, gode di un lieve commento sonoro. Tra i rumori ambientali, udiamo un flauto e un sitar appena accennati nel riverbero – veri e propri Leitmotiv composti e rielaborati elettronicamente da Eduard Artem’ev –, a cui risponde l’esplosione vittoriosa della Nona Sinfonia di Beethoven, che divampa nel finale come un riscatto collettivo.
Pietra miliare del cinema, incluso dal British Film Institute tra i cinquanta più grandi film di tutti i tempi, Stalker ha avuto vastissime risonanze nel corso degli anni. Se da un punto di vista storico sembra quasi profetizzare la tragedia nucleare di Černobyl’ (1986), sono molti gli autori e le opere che in seguito vi hanno tratto ispirazione: dal romanzo Sfera di Michael Crichton (uscito nel 1987, poi trasposto nel 1998), ad alcune pellicole di Lars Von Trier (L’elemento del crimine, 1984; Dancer in the Dark, 2000), fino al recente film di Alex Garland, Annihilation (2017), basato sulla saga letteraria di Jeff VanderMeer.
Emanuele Arciprete
STALKER
Voto: 10/10
Anno: 1979
Paese di produzione: Unione Sovietica, Repubblica Democratica Tedesca
Regia: Andrej Tarkovskij
Soggetto: Arkadij e Boris Strugackij
Sceneggiatura: Arkadij e Boris Strugackij, Andrej Tarkovskij
Fotografia: Aleksandr Kniažinskij
Montaggio: Ljudmila Fejginova
Musiche: Eduard Artem’ev
Scenografia: Andrej Tarkovskij
Costumi: Nina Fomina
Interpreti: Aleksandr Kajdanovskij, Anatolij Solonicyn, Mykola Hrin’ko, Alisa Frejndlich
Genere: Fantascienza