Il buco

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In questi giorni di isolamento, che mai avremmo potuto immaginare, se non come incubo o futuristico scenario apocalittico, complice il tempo sospeso che ci è toccato di vivere, un film spagnolo ha attirato la nostra attenzione.
Chiariamo subito che non è un’opera godibile, tutt’altro, invero inquietante e terribile, però… a chi se la sentisse noi ne consigliamo la visione.
Il primo lungometraggio del regista Galder Gaztelu-Urrutia, titolato Il buco, presentato all’interno del concorso del Torino Film Festival nel 2019, è un thriller distopico, con scene molto forti e perturbanti, quasi da horror, con una componente simbolica e sociale accentuata e non a caso il film ha vinto il premio della Scuola Holden, ed è stato anche premiato, a Toronto e Sitges, oltre a vincere il Goya, il più alto riconoscimento del cinema spagnolo, per gli effetti speciali. Ambientato in una prigione metafisicamente strutturata a mo’ di parallelepipedo, celle grige e asfittiche con due soli individui in ogni piano con al centro un buco nel quale per pochi minuti al giorno si ferma una piattaforma piena di cibo (per i primi piani, ovviamente piena di scarti man mano che si scende, il nulla per gli ultimi), giusto il tempo per nutrirsi, prima che raggiunga i livelli di sotto, niente si può prendere o nascondere, qualora accadesse sensori invisibili avvertono ignoti aguzzini, nessuno sa quanti piani esistano, ogni recluso prima di essere condotto in questo inferno può scegliere un oggetto da portare con sé, ogni mese ognuno può finire più sotto o più sopra col proprio compagno di sventura, avendo quindi assegnato senza merito o colpa un destino di vita, di sopravvivenza o di morte per inedia. Il film sviluppa attraverso il cibo e la lotta atavica tra individui per sfamarsi, con un minimalismo narrativo e formale, chiavi di lettura molteplici, toccando con originali spunti, argomenti che non invecchiano mai nell’universo mondo, che, se non è basato (come di fatto non lo è) sulla giustizia, sulla solidarietà, sulla responsabilità di ogni singolo individuo e l’equa distribuzione delle risorse, ha per molti il sapore della violenza e del sangue.
Protagonista è Goreng (Iván Massagué), un attore calato molto nel suo ruolo, dal volto seicentesco, come l’ eroe del libro che porta con sé, Don Chisciotte della Mancia, che cercherà di bloccare questo sistema consolidato nei secoli, opponendo proprio l’intelletto e la ragione alla bruta forza.
Ma “il cambiamento non è mai spontaneo” e vedremo come Goreng saprà alla fine, fare una scelta significativa, forse un futuro diverso è possibile. Al di là dei diversi riferimenti biblici, letterari, della esplicita lotta di classe, dei simbolismi e metafore, al di là della trama intrisa di scene crude e crudeli, emerge l’abilità dell’autore che gestisce al meglio la narrazione pur trovandosi all’interno di un unico, claustrofobico ambiente.
Sicuramente non un capolavoro, ma un film onesto, che insiste su temi forse scontati (vedi ingordigia, egoismo e violenza) ma tutt’altro che risolti.

Dadadago

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