Notturno Barocco: Intreccio di miti, misteri e riflessioni

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“Al buio e più sicura,
per la segreta scala, travestita,
oh, sorte fortunata!,
al buio e ben celata,
stando la mia casa al sonno abbandonata”
(Notte oscura, San Giovanni della Croce)

“Tra due albe, una densa di Mistero, l’altra ammaliante e magica, viene a situarsi un frammento di storia, quella del grande e famoso Caffarelli, castrato, osannato e idolatrato per la sua voce che supera ogni umano limite, nella Napoli sovrana incontrastata della musica e della cultura, una Napoli colta e plebea, mistico intreccio di un’armonia ineguagliabile”.
Così dalla prefazione a cura della dott.ssa Rosa Morelli, teologa, nel cui Salotto Letterario il progetto per la realizzazione di questo secondo lavoro si sarebbe originato, racconta il prof. Domenico Sapio, docente di letteratura poetica e drammatica al Conservatorio di Napoli San Pietro a Majella e autore di una recente pubblicazione: ”Notturno barocco – Il tesoro di Caffarelli”, edito da Colonnese.

Professore Sapio dopo il successo di “Dèi senza Olimpo”, ancora un lavoro, questa volta un romanzo, dedicato alla preziosa ed irripetibile esperienza musicale dei castrati, possiamo dire che lei nutra simpatia per questi personaggi carichi di divismo e di ambiguità ed abbia, per così dire, a cuore le loro sorti e la sorte della loro memoria? Come mai?

«Sì, possiamo dire così, ho a cuore il ricordo di questi singolari artisti, in un generale clima di ripresa, di riscoperta, di valorizzazione del repertorio musicale barocco.
Un rinnovato interesse di tutto il mondo musicale, cui stiamo assistendo da qualche anno a questa parte e a cui ho inteso allinearmi e contribuire, con queste due pubblicazioni, ricche, la prima, di aneddotica, la seconda, di fascino romanzato a tinte fosche»

Quando abbiamo concordato i tempi e le modalità di questa intervista, lei mi ha fatto una rivelazione carica di suggestioni, dicendomi che sarebbe stato il protagonista stesso a chiederle di raccontare la sua vicenda. Cosa intendeva esattamente?

«Giunto a metà del romanzo, ho avuto il classico momento di stasi degli scrittori, avevo in mente due o tre finali e sono stato fermo a rifletterci per qualche settimana.
Poi, una mattina, di punto in bianco, mi sono messo a scrivere piuttosto di getto e senza un disegno preordinato, ho lasciato, per così dire, che fosse la penna a condurre, e mi sono ritrovato ad assecondare i passi del protagonista che, uno dopo l’altro, mi disvelavano la vicenda nel suo prender vita sotto le mie mani direi inconsapevoli.»

Notturno barocco sarebbe un anacronismo se lo intendessimo in senso musicale, dal momento che il notturno è una forma romantica. Notturno è anche, nella liturgia della chiesa cattolica, parte della preghiera che rientra nella Vigilia o Lodi Mattutine. Non appare, del resto, casuale l’interesse descrittivo privilegiato che lei riserva reiteratamente alle condizioni di luce ed ombra degli interni ed en plein air. Come chiarito da una citazione preliminare alla lettura, la notte di Caffarelli non sarebbe altro che la “Notte oscura” di San Giovanni della Croce, in cui si narra il viaggio dell’anima alla ricerca di se stessa e dell’unione con Dio, unione che nel suo libro avviene attraverso il perdono. Sarebbe il suo, dunque, un testo carico di misticismo, in cui si perfeziona un disegno preordinato e alla cui realizzazione tutto sembra cooperare. Lei crede nel libero arbitrio di agostiniana memoria?

«In un primo momento il titolo sarebbe dovuto essere semplicemente “Il tesoro di Caffarelli”, successivamente mutato proprio in omaggio ai versi di San Giovanni della Croce, uno dei maggiori poeti spagnoli del XVII secolo. Secondo San Giovanni, “la notte” di ognuno di noi sarebbe il tentativo proprio dell’anima di recuperare se stessa fra le difficoltà e le angosce.
L’aggettivo “barocco”, poi, adoperato in relazione al groviglio della vicenda, “al volto della vita, i cui sentieri non sono dritti ma avvolti, avvinghiati su loro stessi, i cui colori sono forti, intensi, scintillanti, il cui gusto è il dolce amaro”, per citare ancora la prefazione della dottoressa Morelli.
La matassa si dipana alla fine per effetto di una volontà superiore a quella dei uomini: la divinità opera ed entra in scena ”a gamba tesa” per la redenzione del suo cantore prediletto».

La vicenda, fino dalla copertina si intuisce geograficamente ben collocata in una Napoli che è quella artisticamente fiorente e culturalmente pullulante del Settecento: il sottotitolo che rimanda ad un ben più noto tesoro, l’immagine che raffigura parte della facciata della chiesa di Santa Maria della Colonna. Pagina dopo pagina, lei indugia piacevolmente in una descrizione minuziosa e particolareggiata, e numerosissimi sono i richiami, specialmente a luoghi di grande interesse musicale per l’epoca: la chiesa di Santa Maria di Loreto fuori le mura, sede del primo conservatorio, la chiesa dei Gerolomìni e l’attiguo Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, il quartiere di Santa Lucia, via Toledo, via Chiatamone, Piazza Castello con l’imponente Maschio Angioino, e poi d’intorno Castel dell’Ovo, Castel Sant’Elmo a fare capolino dal colle di San Martino, ancora la Sanità, le Fontanelle, Posillipo. Riusciamo a ricostruire e ad immaginare come dovesse apparire la città agli occhi del protagonista, anche grazie alle dettagliate descrizioni topografiche redatte dall’impagabile lavoro di Giuseppe Sigismondo, primo bibliotecario del Conservatorio di Napoli. Ma, il linguaggio di quella pletora di umili che fanno da contorno alla vicenda, il napoletano di cui lei si serve e di cui, per così dire, traboccano i bassi del tempo è attinto e mediato dai libretti buffi dell’epoca? Infine, quanto ha influito l’essere musicista e napoletano di formazione, nel raccontare questa vicenda?

«Sono nato e vivo a Capua, ma ho studiato in quello stesso conservatorio dove oggi mi onoro di insegnare, con i grandi maestri di un tempo, cui ogni giorno va la mia gratitudine: Ernesto Galdieri, Jacopo Napoli, Antonio Braga, Argenzio Jorio. Nella retrocopertina si narra di una Napoli solare e selenitica, serva e sovrana, sulfurea e serafica, una città che mostra, oggi come allora, due volti e ricca di contraddizioni inconciliabili.
Certo essere musicista e vivere immerso nel cuore pulsante e dalla bellezza inestimabile del centro storico, dove il Conservatorio San Pietro a Majella sorge, ha rappresentato certamente un fattore di sensibilità ulteriore in grado di orientare, tra l’altro, le mie scelte stilistiche.
Il napoletano di cui mi servo, per venire all’altra parte della domanda, non è evidentemente quello dell’epoca che sarebbe risultato ostico e avrebbe finito per rallentare la comprensione dei fatti narrati ma, in qualche misura, un’attinenza con il teatro anche se posteriore, la conserva, nello specifico quello caratterizzato di Eduardo De Filippo»

Nel romanzo non mancano momenti di suspense, noir, particolari pruriginosi e un po’ scabrosi. La vicenda se non ispirata a fatti realmente accaduti è di certo verosimile. Da dove ha tratto materiale per il suo soggetto, in altre parole, quanto di storico vi è nella vicenda del povero Bartolino del Dio?

«Si tratta di una pura invenzione narrativa, messa giù tra l’altro in quella fase creativa di cui parlavo che in qualche modo prescindeva dalla mia creatività conscia.
Ma certamente storie del genere, di angherie, soprusi consumati ai danni dei giovani ed indigenti ospiti degli istituti di previdenza che all’epoca erano quelli di formazione musicale, dovevano essere all’ordine del giorno, così come riportano gli annali e le cronache dell’epoca.
Inoltre la Napoli di quel tempo, la greca urbs, aveva un sistema di valori e una una tolleranza tutta diversa per quelli che oggi definiremmo particolari scabrosi, per il torbido, per il macabro»

La visita di Caffarelli nell’antro della Sibilla, non quella Cumana, ma al cospetto della fattucchiera Teresina, è sicuramente il capitolo più significativo e denso di mistero e fascino, che rimanda all’eterna lotta tra il bene e il male. L’incontro si rivelerà piuttosto un’introspezione, “una discesa agli inferi della propria coscienza“, rimescolata e attivata probabilmente da quegli intrugli somministrati a Caffarelli la notte prima e di cui si faceva largo uso all’epoca: assenzio, làudano. Tuttavia è proprio la sibilla ad indicare al protagonista la strada fino ai piedi della Misericordia. Magia dunque o premonizione?

«La sibilla era una vecchia conoscenza del musico di cui egli aveva perso notizia da lungo tempo, la visita al suo abituro rappresenta anch’essa uno dei passi, certamente il più significativo e misterioso, che la notte oscura della sua anima lo induce a compiere nel percorso verso la remissione dei peccati e la rinascita spirituale».

Un’ultima brevissima domanda, ogni capitolo prende titolo e suggerisce l’ascolto di una composizione per voce di castrato, ad esempio: “Ombra mai fu” dal Serse di Händel, “Son qual nave” dall’Artaserse di Broschi, “Lascia ch’io pianga” dal Rinaldo di Händel, per citare le più celebri. Quanto all’ultimo capitolo, il “Magnificat” cui lei si riferisce è quello in si bemolle, dapprima attribuito a Pergolesi, poi a Durante, ma verosimilmente apocrifo, saggio di scuola, o quello in Do minore, riscoperto da Dario Ascoli?

«Nel 2015 ho assistito con grande entusiasmo e quasi emozionato alla performance dei nostri allievi di conservatorio diretti dal maestro Elsa Evangelista, che allora ricopriva la carica di direttore del Conservatorio, alle prese con la prima esecuzione moderna del “Magnificat” in Do minore, dai Vespri brevi, che il maestro Ascoli ha ritrovato e di cui ha curato la revisione.
Si tratta di eventi di straordinaria rilevanza, soprattutto per noi addetti ai lavori, cui ho inteso tributare il meritato plauso»

Riportiamo in coda uno dei passaggi più significativi di questo recente lavoro, scritto con “prosa musicale, poetica e di rara eleganza, la cui lettura non è impresa neutra, dal momento che il protagonista, con la sua disperazione e il suo riscatto è in grado di lasciare un’impronta indelebile

“Ma se bendata è la fortuna non lo è il tempo il cui occhio attento di lunga memoria e di lontana veggenza, avrebbe sicuramente scoperto il tentativo e riso di quel personaggio travestito, che ora entrava a fatica negli abiti di una volta.
Sapeva fin troppo bene che lo scorrere inesorabile della vita non si inganna e che i sogni condotti ad occhi aperti si chiamano allucinazioni e conducono alla follia: la verità, la realtà erano per lui giudici di una corte senza appello che avevano già pronunciato la sentenza e applicato una punizione che da un pezzo ormai scontava ogni giorno, quando interrogato, lo specchio rispondeva consegnandogli il suo aspetto sempre più sbiadito, e sembrava capace di far riecheggiare come emerso da un lontano ricordo il suono della propria voce diversa da prima, scolorita, incrinata altari di antenna di vascello battuto dal vento. Gli tornavano alla mente le parole di Porpora, il suo maestro, sull’estrema e mercuriale inafferrabilità di quel dono raro.
E si rendeva conto, in verità già da un po’, che sebbene puntigliosamente inseguita e vittoriosamente raggiunta quella grande facilità era solo un altro dono della gioventù; anzi a ben riflettere, un prestito che alla vaga età avrebbe dovuto restituire al proprio commiato, quando aprendo gli occhi su un giorno nerissimo, la si scopre intenta a far fagotto, pronta a fuggire via con tutto ciò di cui illusoriamente ci si crede padroni”.

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