Ormai il fenomeno è ampiamente noto: gli ultimi tempi sono stati segnati da un massiccio revival cinematografico degli anni Ottanta (in inglese, ‘80s), della loro estetica e del loro immaginario.
La tendenza ha origine nel 2011, con il film Super 8 di J. J. Abrams, che già provvede a mettere in campo tutti quegli elementi poi ripresi successivamente dalla serie Stranger Things: un gruppo di ragazzini in bicicletta, una creatura aliena intrappolata sulla Terra, un’agenzia governativa senza scrupoli e di stampo militare.
Tre anni dopo, escono i film Guardiani della Galassia e It Follows. Nel primo caso abbiamo una soundtrack, selezionata personalmente dal supereroe marveliano Star-Lord, che raggruppa alcuni grandi successi musicali, da Bowie ai Queen; nel secondo caso, assistiamo a un inquietante contagio, diffuso verso la fine degli anni Settanta, che sembra preannunciare lo spettro epidemico dell’AIDS. Da qui si passa al puro citazionismo di Stranger Things (2016), con un mucchio di situazioni ricalcate sui film di Spielberg (E.T., 1982), Donner (I Goonies, 1985), Cronenberg (Scanners, 1981), Lucas (Star Wars) e Zemeckis (Ritorno al Futuro, 1985).
La serie televisiva riscuote un tale successo da far diffondere il modello su scala mondiale. Si arriva così alle rievocazioni generiche, che influenzano cromatismi, vestiario e acconciature, nell’episodio San Junipero di Black Mirror (terza stagione, anno 2016); parallelamente, viene reimmesso nella contemporaneità un elemento esemplare della cultura pop, il walkman, oggetto decisivo intorno al quale ruota l’intera storia di 13 Reasons Why (2017).
Faraoniche campagne di marketing accompagnano la produzione di Blade Runner 2049 (2017), sequel del cult diretto da Ridley Scott nel 1982; mentre, in relazione al contesto berlinese di poco precedente alla caduta del Muro, si opera un indistinto saccheggio delle canzoni e delle musiche che durante il periodo dominavano le classifiche mondiali (Atomica Bionda, 2017).
L’esempio più recente si ha infine con il film Doctor Sleep (2019), la cui storia, pur essendo ambientata al giorno d’oggi, recupera figure, dinamiche e scenografie dello Shining di Kubrick (1980).
Nel fenomeno è prevalso un taglio quasi unicamente nostalgico, in primis da parte degli stessi autori (si pensi ai gemelli Duffer, registi e creatori di Stranger Things), i quali hanno inteso così ripagare con ingenuità, e senza troppa inventiva, il debito contratto nel corso della loro infanzia e adolescenza.
Allo stesso tempo, il revival si è rivelato un’operazione commerciale molto proficua, capace di sfruttare l’aura vintage di un certo merchandising tornato alla ribalta. Anziché prendere spunto dalle ideologie dell’era Reagan, e dunque meditare sui fanatismi e sui nuovi culti affermatisi durante gli anni Ottanta – uno su tutti, il culto del corpo, spesso tonico, palpitante e irrorato di sudore, che il New Horror ha politicamente liquefatto, miscelato o mutilato –, si è scelto piuttosto di rispolverare atmosfere, colori, giochi e mode, allestendo una sorta di variopinto luna park.
C’entrerà forse la consapevolezza che quel periodo sia stato l’ultimo in possesso di una vera identità estetica tale da essere recuperata a distanza (difficilmente i decenni attuali, in futuro, verranno trasposti con eguale efficacia); c’entrerà forse che proprio allora sia esplosa una cultura popolare del blockbuster, nonché della distribuzione homevideo, da cui è derivata una forma di collezionismo e feticismo popolare dei prodotti cinematografici.
Ma c’entrerà, soprattutto, il fatto che la generazione cresciuta in quel decennio sia la stessa che al momento viaggia oltre i quaranta. E cioè, in altre parole, la generazione sulla quale, a causa della gravità del momento storico, incombe il peso di una maturità responsabile.
Da questa pressione sociale nasce il desiderio di rievocare le esperienze adolescenziali, e la propensione a spendere denaro nel tentativo di soddisfare la propria nostalgia.
Al filone degli ‘80s appartiene anche Ready Player One, diretto da Steven Spielberg. Obiettivo del film non è però quello di raccogliere senza alcuno sforzo i frutti del mero citazionismo (come hanno pensato alcuni, ostinandosi a rintracciare la miriade di riferimenti disseminati ovunque), bensì quello di smascherare lo spirito inautentico posto dietro lo sfruttamento, selvaggio e sistematico, di ciò che si è scoperto essere ancora un marchio vincente.
La critica viene mossa nei confronti di un mercato – ben esemplificato dal personaggio di Nolan Sorrento (Ben Mendelsohn) – estraneo alla cultura giovanile, ma comunque intenzionato a spremerne il potenziale economico. Un mercato parassitico che, in piena tradizione capitalista, dovendo a tutti i costi fingersi amichevole, è costretto a falsificare il linguaggio dei propri compratori, e per farlo si riempie le orecchie non solo di tecnici e di studiosi, ma anche di traditori, ossia di nerd sull’orlo della totale dissociazione, i quali vendono se stessi per truffare i propri simili.
Questo livello di lettura, il più profondo e interessante tra le diverse possibilità, è per l’appunto sorretto dall’apoteosi di citazioni cinematografiche, fumettistiche, musicali e videoludiche, ammassate in una quantità tale da vincere qualsiasi confronto. Come se, prosciugando il filone degli ‘80s (e non solo, in quanto i riferimenti spaziano anche molto indietro, e persino in avanti), si volesse sfidare chiunque a scovare un rimasuglio da spolpare in futuro.
Rientrando a pieno diritto tra i padri fondatori della medesima iconografia citata, Spielberg realizza il film definitivo sull’argomento, un vaccino alle derive consumistiche della moda. E il cerchio si chiude per mano di colui che, a suo tempo, insieme ad altri, ne aveva tracciato l’inizio. Del resto già in una celebre scena di E.T. compariva un travestimento di Yoda (personaggio della saga lucasiana), chiaro esempio di proto-citazione ‘80s, inserita all’interno – per non dire all’inizio – degli stessi anni Ottanta.
Le ulteriori proposte di lettura non funzionano altrettanto bene, o meglio, soffrono di un certo disinteresse, presumibilmente voluto, da parte degli sceneggiatori Zach Penn ed Ernest Cline (quest’ultimo anche autore del romanzo da cui è tratto il film).
La circostanza sociale del mondo distopico si limita a fornire una minima cornice narrativa alla vicenda, mentre la critica rivolta alla dipendenza dei giocatori nei confronti della realtà virtuale, a discapito della realtà effettiva, sembra poco convinta. In un mondo al collasso, invitare a godersi le giornate e gli spazi aperti suona ridicolo; ma in verità lo scopo del protagonista non è mai quello di distruggere OASIS (il cui valore positivo, di riscatto e appagamento, non viene messo in discussione), bensì di preservarlo dalle grinfie della multinazionale IOI. Se poi si ottiene anche di frenare il risucchio ossessivo dei giocatori, ben venga, ma non è questo lo scopo primario della storia. OASIS non è MATRIX, e l’idea di un’attenuazione virtuale si delinea soltanto verso il finale, senza troppa insistenza, come una clausola o un’avvertenza cautelativa.
Ne escono così scongiurate le accuse di buonismo alle quali i detrattori di Spielberg sono sempre propensi.
Rimane la condanna contro il pervertimento del (video)gioco, del sogno e della gioventù, a causa del profitto e del capitale. Poco importa che per arrivarci, Spielberg confezioni a sua volta un blockbuster. Se infatti il cinema, già ai tempi dei Lumière, era concepito come spettacolo a pagamento, non così il gioco, che nasce con lo scopo di essere giocato e basta, la cui purezza è messa a rischio dall’intromissione impropria del denaro.
Avendo fatto tesoro di questa lezione fin dagli albori della sua carriera, il regista – a brevissima distanza dal suo film precedente, The Post, di taglio biografico, e a tredici anni dall’ultima pellicola di fantascienza che vanti la sua firma (La guerra dei mondi, 2005) – punta sul divertimento e sulla freschezza dell’azione, aprendosi a una serie dirompente di parodie meta-cinematografiche e cartoonistiche (Alien, ma soprattutto Shining) senza eguali all’interno della sua filmografia. Il pastiche è presto servito, laddove King Kong si allea con il T-Rex di Jurassic Park, Gundam e il Gigante di Ferro combattono contro Mechagodzilla, le musiche di Ritorno al futuro (scritte da Alan Silvestri, lo stesso compositore di Ready Player One) si fondono con quelle di Van Halen o de La febbre del sabato sera.
Contribuisce alla resa una CGI strabiliante, insieme a una sceneggiatura che, molto lineare e pur con qualche ingenuità, non perde mai il ritmo, mettendo in scena ancora una volta la struttura archetipica della fiaba coi suoi elementi essenziali: l’eroe in viaggio, l’enigma da risolvere e il tesoro da conquistare, temi già cari a Spielberg dai tempi di Indiana Jones e l’ultima crociata.
Ad essi, infine, si accompagna la figura del vecchio saggio, qui un malinconico ed eccentrico Mark Rylance nei panni del creatore di OASIS, geniale nerd in piena regola, la cui coscienza forse sopravvivrà artificialmente, nascosta chissà dove, dentro la sua stessa creazione.
Emanuele Arciprete
READY PLAYER ONE
VOTO: 8/10
Anno: 2018
Paese di produzione: Stati Uniti
Regia: Steven Spielberg
Soggetto: Ernest Cline
Sceneggiatura: Zack Penn, Ernest Cline
Fotografia: Janusz Kaminski
Montaggio: Sarah Broshar, Micheal Kahn
Musiche: Alan Silvestri
Interpreti: Tye Sheridan, Olivia Cooke, Ben Mendelsohn, Mark Rylance, Simon Pegg
Genere: Fantascienza