Il 22 Febbraio sarà ricordato da molti come il giorno della paura per il Corona Virus. Mentre mezza Italia si preparava a barricare, isolare, interrompere, disdire, procrastinare eventi, una Bologna di reminiscenza partigiana resisteva e il suo Teatro Comunale metteva in scena la terza recita di Madama Butterfly.
Noi c’eravamo, resistevamo e assistevamo senza mascherina.
Mentre la moda del suffisso –ina (mascherina, amuchina, candeggina) impazzava lasciando nei supermercati solo penne lisce o farfalle, noi eravamo seduti lì, in fila M e stringevamo tra le mani non sterilizzate da nessuna soluzione disinfettante il programma di sala: incauti.
Partiamo dalla storia, o -per meglio dire- dalla storia nella storia. La lettura registica di Damiano Michieletto è certamente molto affilata. A Nagasaki si sostituisce una non ben precisata città orientale. La scena è interessante. Al centro una casa di plexiglass e tutt’intorno insegne, cartelloni pubblicitari, lampioni e la calma di una periferia isolata e appartata. Il luogo ideale per trovare attenzioni femminili a basso costo.
Il Pinkerton di Bologna sembra più un turista sessuale che un Marine mentre l’innamorata Cio-cio-san sembra voler credere a quell’amore che, più che redenzione, sembra fin da principio una condanna. Tutt’intorno un continuo volteggiare di giovanissime ragazze in abiti succinti pronte all’ammiccamento mentre carrettini ambulanti continuano a preparare e vendere cibo. Insomma, un mercimonio.
Lo squallore pensato dal regista, non è così peregrino. In un mondo globale dove le distanze si sono di molto accorciate e le differenze sociali sembrano tremendamente acuite, tutto si può comprare, basta andare dove costa meno. E nel consumismo sfrenato, in questi luoghi surreali, le persone sono acquistabili come cose.
Qui nulla è vero. Le luci sono diodi LED, la casa è di plastica e perfino i fiori del secondo atto sono solo colori acrilici dipinti su pannelli di plexiglas che hanno l’ambizione di essere le pareti del focolare. Come può essere vero un amore in un mondo di finzione? Più che amore, quella di Cio-cio-san sembra una speranza delirante che oscilla come la gabbia vuota del pettirosso nell’attesa che torni (Pinkerton) a fare il nido. Ma dietro all’illusione c’è sempre una speranza che rivela la verità dell’animo. Quando questo castello illusorio crolla e la realtà fa visita alla speranza, la sconfitta ha il suono del colpo di pistola con cui la sventurata si toglie la vita.
La bacchetta di Pinchas Steinberg dirige mettendo al massimo contrasto e saturazione. I colori musicali sono molto presenti e le armonie pentatoniche scintillano. Il tutto è così esasperato che talvolta mortifica la vocalità degli attori. A questo punto ci si potrebbe chiedere se siano le voci non adeguate a sostenere questa direzione così presente, ma sarebbe come domandarsi se sia nato prima l’uovo o la gallina solo dopo aver fatto la frittata: sarebbe inutile e- ad essere sinceri- questa frittata non sarà nouvelle cousine ma è davvero buona.
Che non sia amore tra i due protagonisti lo si è percepito dalla prima nota. Il Pinkerton di Angelo Villari è presente e, almeno vocalmente, molto onesto. Cosa dire di Karah Son? C’è solo da alzarsi in piedi e applaudire. La vicenda vocale si fonde con la storia. Il soprano non ha lo strumento adatto a sostenere la parte della Butterfly. La debolezza in basso è un problema non da poco di cui non ha alcuna colpa e di cui parzialmente si riscatta ogni volta che può volare sui registri più alti. Nonostante ciò, lei c’è e si dona al pubblico e all’opera con passione e sincerità. Il suo canto sta alla Butterfly come l’amore di Cio-cio-san sta a Pinkerton: impossibile ma onesto. Non possiamo non premiare la generosità e la dedizione con cui crede e porta avanti anche ciò che non può: brava, brava, brava.
Bravi Cristina Melis (Suzuki) e Dario Solari, nei panni di Sharpless. Grottesco ma simpatico il Cristiano Olivieri che rende giustizia al sensale Goro.
Rivedibile – almeno per i costumi- la Mrs Pinkerton di Grazia Sinagra. Last but not least, magnifica la Lancia Thema blu con cui la cricca americana arriva al bordello; è vero, non canta (soprattutto a motore spento), ma è tanto bella.
Ci è piaciuto? Sinceramente è difficile rispondere. Se da un lato è da premiare l’ambientazione molto attuale e la mono-scenografia accattivante, dall’altro risulta urticante l’esposizione prolungata ai luoghi comuni, e qui ce ne sono troppi, dai turisti in cerca di minorenni al bullismo tra bambini. Il prurito è insopportabile, fortunatamente non si tratta di corona Virus.
Forse, essiccare al sole questa rilettura della Butterfly aiuterebbe ad asciugarne gli eccessi. In fondo, basta accendere la TV su un canale commerciale per fare incetta di luoghi comuni, almeno a teatro non ne sentiamo la necessità. Ciò che più è dispiaciuto è che l’aver dirottato la vicenda su una rilettura in stile Arena di Giletti, ha –gioco forza- mortificato alcuni aspetti originali della vicenda.
Non si vuole, in questo commento, essere prodi alfieri dell’ortodossia classica, anzi. Ma c’è un però: per ammazzare un elemento c’è bisogno di una giusta causa. Ci deve essere del nuovo, una forte esplosione di vitalità artistica che possa giustificare l’omicidio appena perpetrato. Il motivo non l’abbiamo colto. Così, in questo caso, l’omicidio avrebbe l’aggravante dei futili motivi. Non arriva, però, nessuna condanna perchè nell’insieme l’opera ha funzionato e questo non è poco.
Tanti applausi, meritatissimi. Tornando a casa penso: è stata la prima recita a cui ho assistito in cui nessuno ha tossito per vezzo. Sarà stata la vergogna da pandemia? Se è così, viva il Corona Virus.
Ciro Scannapieco
Foto Rocco Casaluci