La giovane Cha Young-goon è convinta di essere un cyborg. Un giorno, mentre sta lavorando, introduce dei fili elettrici nel polso, allo scopo di ricaricare le proprie batterie. L’operazione finisce prevedibilmente malissimo, e viene considerata (non a torto) un tentato suicidio. Così Cha Young-goon si trova rinchiusa in un reparto psichiatrico. Stessa sorte subita dalla nonna adorata, la quale tempo addietro aveva iniziato a credere di essere un topo. Nemmeno dentro l’ospedale, però, le cose accennano a migliorare: Cha Young-goon conversa col distributore automatico di bevande; conosce altri pazienti affetti dai disturbi più bizzarri, come il bel Park Il-sun, schizofrenico e antisociale; ed è assolutamente determinata a restituire alla nonna la sua dentiera dimenticata a casa.
Mai il gioco della follia è stato messo in scena con più brillante estrosità, e con più delicatezza, lontano da qualsivoglia tentazione retorica o intellettuale.
Park Chan-wook, regista sudcoreano noto in occidente per la sua “trilogia della vendetta” (Mr. Vendetta, 2002; Old Boy, 2003; Lady Vendetta, 2005), firma qui un’opera esplosiva, vincitrice dell’Alfred Bauer Award al Festival di Berlino 2006.
Tra i temi che alimentano la storia, la solitudine del diverso e la sua riconciliazione col mondo, il perdono e il superamento della colpa, la ricerca del senso chiarificatore posto dietro l’esistenza. Eppure non è su di essi che si focalizza l’attenzione critica del regista, il quale abdica alla funzione di analista, o peggio, di razionalista, sottraendosi al compito di valutare le implicazioni morali o sociali del contesto manicomiale. Il pretesto narrativo serve a raffigurare un microcosmo dal tono bizzarro, ironico e surreale, dove prendono consistenza i sogni dei malati: queste creature spaesate, questi poeti ingenui, i cui giochi (e traumi) infantili, secondo la lezione freudiana, non hanno mai cessato di formicolare e di rinnovarsi mediante la fantasia. Park Chan-wook vuole anzi dimostrare che tali giochi e tali sogni, sospinti da un’iniziale anarchia, possono connettersi tra loro, e magari completarsi a vicenda in uno stadio di pace e quiescenza simile alla guarigione, senza troppe intromissioni da parte della realtà.
Se la vicenda segue un percorso evolutivo abbastanza tradizionale, la natura postmoderna del film emerge invece dai riferimenti e dalle citazioni intelligentemente rielaborate. Non solo la dinamica sanitaria presente in Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman, ma anche gran parte della visionarietà di Terry Gilliam (Brazil, La leggenda del re pescatore, Tideland); qualche spunto formale tratto da Il favoloso mondo di Amélie, e persino dall’immaginario di Wes Anderson; la leggerezza fiabesca, tipicamente orientale, di un Miyazaki; omaggi sparsi ad altri anime o videogiochi.
Si può inoltre cogliere, a partire dal titolo, un riferimento all’automazione femminile nelle molteplici declinazioni letterarie, fumettistiche e cinematografiche: da Olimpia, la bambola meccanica di Hoffmann, alla falsa Maria di Metropolis; dalla Rachael di Blade Runner a Motoko Kusanagi di Ghost in the Shell.
Al resto provvede la prolifica fantasia di Park Chan-wook, sorretta da un assoluto controllo registico. L’atomismo dei personaggi, (iper)attivi nella loro contorta ma instancabile vitalità spirituale, consente infatti di inanellare una serie di sequenze sempre aperte al virtuosismo e alla più energica sperimentazione.
Merito degli attori, ben aderenti ai ruoli sgangherati, nonché del complessivo reparto tecnico.
In particolare, oltre alla vivacità del montaggio, colpisce la vividezza della fotografia, carica di colori e di contrasti simbolici: il bianco, convenzionalmente associato all’algidità ospedaliera, sembra anche suggerire una certa purezza d’animo nei pazienti; mentre il verde, principale antagonista del bianco, passa attraverso una serie di eloquenti sfumature (dai toni più acidi delle celle imbottite, a quelli più caldi e speranzosi dei prati).
Altrettanto gradevole la sintonia che le musiche riescono ad istituire, in modo perfino spassoso, con il carnevale psichiatrico a cui assistiamo meravigliosamente conquistati.
Emanuele Arciprete
I’M A CYBORG, BUT THAT’S OK
Voto: 8/10
Anno: 2006
Paese di produzione: Corea del Sud
Regia e soggetto: Park Chan-wook
Sceneggiatura: Seo-Gyeong Jeong, Park Chan-wook
Fotografia: Chung-hoon Chung
Montaggio: Kim Sang-bum, Kim Jae-bum
Musiche: Yeong-wook Jo
Interpreti: Im Soo-jung, Jeong Ji-Hoon
Genere: Commedia surreale