Una finestra si affaccia sulla strada, all’altezza del marciapiede, dove passanti e automobili procedono intravisti dal basso: la finestra decapita i corpi, incornicia gli pneumatici. All’interno, in primo piano, alcuni calzini pendono agganciati al lampadario, suggerendo sin da subito l’umiltà che regna dentro il seminterrato del quale la finestra è l’unico vero punto di luce naturale. Partono i titoli di testa. La macchina da presa compie un movimento perpendicolare, scendendo sul suo asse, fino a mostrare un ragazzo asiatico seduto col cellulare tra le mani.
È l’inquadratura iniziale di Parasite (2019), diretto da Bong Joon-ho, il primo film sudcoreano premiato con la Palma d’oro al Festival di Cannes. Già quindici anni fa, il Gran Prix Speciale della Giuria, e cioè il secondo premio più prestigioso della rassegna, andava all’iconico Old Boy di Park Chan-wook – a dimostrazione del buon vento che ormai soffia da Seul. Entrambi i registi, Bong Joon-ho e Park Chan-wook, infatti, appartengono alla cosiddetta New Wave sudcoreana.
Fin dall’apertura, Parasite preannuncia il tema principale della storia, ossia il contrasto tra il mondo di superficie – e ancor più in alto, il mondo della ricca borghesia situata in collina – e le tane sotterranee della povertà, con un movimento discendente dalla forte implicazione politico-sociale.
Al cinema di Bong Joon-ho interessa rappresentare le criticità del mondo contemporaneo, in particolare sudcoreano, attraverso vari generi: il thriller (Memories of a murder, 2003; Mother, 2009), l’horror (The Host, 2006), la fantascienza post-apocalittica (Snowpiercer, 2013), la fiaba animalista (Okja, 2017) e adesso la commedia nera.
L’inquadramento oscilla in modo dinamico e imprevedibile, delineando una zona intermedia che si sottrae a qualsiasi schematismo. Autore dei soggetti e delle sceneggiature, non a caso laureato in Sociologia, Bong Joon-ho evita di aderire meccanicamente ai singoli filoni e mette in campo un impegno coscienzioso, sempre originalissimo, di riscrittura e ibridazione. L’impianto di Parasite, ad esempio, è quello della commedia classica, giocata sugli equivoci, sulle sostituzioni, sul desiderio tipicamente carnevalesco di rovesciare i ruoli: i servi sostituiscono i padroni, o quantomeno sognano di farlo. All’interno di questo primo blocco, s’inserisce una progressiva componente tragica che sfocia nel terribile climax finale. Lo slittamento tra i diversi registri consente a Bong Joon-ho di sperimentare brillanti giravolte narrative, senza mai perdere di vista la denuncia sociale, vero obiettivo dell’opera, e senza mai scivolare nel sublime edonismo di un Park Chan-wook. Ne derivano responsabilità e ambizioni morali: la critica, anziché venire ridotta o accantonata, esce potenziata dall’uso della metafora, e le linee direttrici spiccano violentemente.
Già i protagonisti di The Host, braccati dall’esercito e dal sistema sanitario, compiono un movimento discendente che li trascina sotto ponti e cavalcavia, e poi dritto nella rete fognaria, dove un mostro ha rapito la coraggiosa Hyun-seo. Ma è lo stesso mostro, risalito dalle profondità dell’acqua, ad incarnare il rimosso di una civiltà generalmente ipocrita e autodistruttiva.
Con Snowpiercer assistiamo invece ad un’avanzata orizzontale, dagli ultimi vagoni fino alla locomotiva di quell’unico treno sopravvissuto alla catastrofe ambientale. L’ordine gerarchico dei vagoni rispecchia dunque la disposizione classista dei passeggeri.
Agli ambienti claustrofobici di Snowpiercer si sostituiscono paesaggi incontaminati: lo scenario principale di Okja è la montagna. Qui fiorisce l’amicizia tra la piccola Mija e una creatura fantastica – Okja, appunto – al riparo dal resto del mondo. Un’altitudine idilliaca che il capitalismo sfrenato e predatorio, in agguato dal basso, giunge immancabilmente a profanare.
Ogni linea direttrice, nel cinema di Bong Joon-ho, include la rottura di un confine.
Qualora tali direttrici manchino, il ristagno porta a vere e proprie impasse, a indagini irrisolte, all’arresto di innocenti, a dolorosi compromessi, al mescolarsi di vittime e carnefici. È il caso di altri due film: Memories of a Murder, dove echeggiano i feroci fantasmi della dittatura militare; e Mother, in cui la disperazione, lo squallore e la malignità contagiano, a vari livelli, ciascuno dei personaggi.
Se però quelle direttrici esistono, come in Parasite, il rovesciamento degli equilibri lungo la traiettoria verticale non può essere evitato, e lo scontro non tarda ad esplodere. Tutta l’azione nasce dalla crisi dello status quo: per quanto all’inizio sembrino mancare esiti negativi, il logoramento annienta man mano la stessa piramide sociale.
Così, la vacanza dei padroni permette ai lavoratori di bivaccare allegramente nella villa; ma quando i veri proprietari rientrano senza preavviso, vediamo gli infiltrati doversi nascondere sotto il divano, ripristinando, con una forma di umiliazione, l’ordine infranto. In modo analogo, l’odore emanato dall’autista (Song Khang-ho, celebre volto della New Wave sudcoreana) risulta sgradevole ed invasivo per il ricco imprenditore, che lo associa emblematicamente alla miseria come fosse un oltraggio personale; ma nel finale è proprio questo ribrezzo, tanto sdegnoso quanto istintivo, a causare la rovina del personaggio.
Il verticalismo di Parasite riceve conferma da una serie di elementi architettonici, alcuni contrapposti tra loro, altri legati da una simbolica continuità.
Alla finestra del seminterrato – varco da cui penetrano rumori, esalazioni tossiche e acqua piovana – coincide la vetrata che dà sul luminoso giardino della villa. Entrambe le superfici caratterizzano rispettivamente lo status economico dei proprietari. A tal riguardo, c’è da domandarsi chi siano i veri parassiti del titolo: se davvero i sottomessi, costretti a imbrogliare pur di sopravvivere, o piuttosto la classe dominante con i suoi agi e la sua scialba esistenza. Ma è probabile che l’attacco, in realtà, coinvolga entrambi i nuclei familiari, i quali non a caso mostrano una perfetta simmetria di ruoli.
Il bunker sotterraneo, invece, rimarca una certa idea di seppellimento già percepibile nel seminterrato della famigliola povera. Forse per questo motivo, all’omicida viene spontaneo nascondersi là sotto, eseguendo, di nuovo, un’inconscia forma di autopunizione. I sensi di colpa non tardano a tormentarlo, né sembra ci sia differenza tra una cella e quella buca nascosta. Il che, paradossalmente, serve a indicare un parziale ripristino dell’ordine rovesciato. Ancora una volta, ciò che è situato in basso, sottoterra, simboleggia il rimosso della società come di fatto è la prigione.
Alla verticalizzazione del film contribuisce l’immagine della pietra, che da curioso oggetto di arredamento si trasforma in arma del (quasi) delitto. “È metaforica”, ama ripetere il protagonista. La tecnica somiglia a quella impiegata da Lanthimos ne Il sacrificio del cervo sacro (2017): pura metacinematografia. E la pietra, col suo inesorabile moto di caduta, analogo al crollo dei personaggi, si scopre realmente metaforica.
I mondi di Bong Joon-ho appaiono altrettanto lacerati sul piano linguistico. Ecco perché nei suoi film la traduzione agisce spesso da ponte, senza che la sostanziale incomunicabilità venga mai davvero superata. Le due lingue costrette a confrontarsi sono l’inglese e il coreano, storicamente segnate da un’ambigua convivenza.
In The Host le ingerenze statunitensi giocano un ruolo fondamentale, portando all’effettiva creazione del mostro, e gli scienziati coinvolti nella gestione della crisi sanitaria approfittano del divario linguistico per complottare ai danni dei pazienti.
In Snowpiercer le differenze scaturiscono dall’inevitabile tessuto multirazziale a bordo del treno.
In Okja la necessità di contrastare il capitalismo alimentare porta ad un’alleanza, non priva di gravi incomprensioni, tra culture distanti (della serie: vegetariani di tutti i Paesi, unitevi!).
Ma in Parasite la traduzione è uno strumento ben più insidioso, poiché sfruttato come cavallo di troia, come trampolino indispensabile alla scalata: offrendo ripetizioni d’inglese, e quindi falsificando i propri attestati di laurea, il protagonista attiva una crescente spirale di inganni.
L’ultima inquadratura completa la cornice del film: riecco la finestra del seminterrato, insieme al movimento discendente, che, nel complesso, diviene anche movimento circolare. Stavolta nevica, è notte, una luce lunare si mescola ai lampioni e alle insegne dei negozi, dove l’atmosfera sembra quasi fiabesca e non più ostile. Il ragazzo finisce di leggere la lettera indirizzatagli dal padre recluso; infine sospira. La voce fuori campo (comparsa solo all’ultimo, durante l’epilogo, con effetto un po’ straniante sullo spettatore) ci ha appena consegnato le speranze e i propositi del protagonista. Sembrerebbe di essere tornati al punto di partenza; invece, rispetto all’inizio, la sventura e il lutto hanno ormai segnato il destino della famiglia. Allo stesso tempo si apre uno spiraglio venato di nostalgia: il riscatto, un domani, potrà forse realizzarsi, ma le regole del gioco non verranno più stravolte. Il ragazzo intende fare soldi ed acquistare la villa un tempo occupata illecitamente. Qualche spettatore reazionario potrà allora rallegrarsi, tirando un sospiro di sollievo; qualcun altro, meno compiaciuto, scorgerà la piramide sociale innalzarsi con nuova forza.
Emanuele Arciprete
PARASITE
Voto: 9/10
Anno: 2019
Paese di produzione: Corea del Sud
Regia e soggetto: Bong Joon-ho
Sceneggiatura: Bong Joon-ho, Han Ji-won
Fotografia: Hong Kyung-pyo
Montaggio: Yang Jin-mo
Musiche: Jung Jae-il
Trucco: Kim Seo-jeong, Kwak Tae-yong, Hwang Hyo-kyun
Scenografia: Lee Ha-jun
Costumi: Choi Se-yeon
Interpreti:Song Kang-ho, Lee Sun-kyun, Cho Yeo-jeong, Choi Woo-shik, Park So-dam
Genere: Thriller, black comedy