Ermione di Gioachino Rossini: Fascino di un bicentenario

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L’Ermione di Gioachino Rossini, azione tragica in due atti su libretto di Andrea Leone Tottola, vide la luce nello stesso anno de L’Infinito, ovvero nel 1819, e rientra nelle attività che il Teatro di San Carlo dedica alle Celebrazioni Leopardiane organizzate dal Centro Nazionale di Studi Leopardiani di Recanati, in occasione del bicentenario di composizione della celebre poesia di Giacomo Leopardi il cui manoscritto è custodito nella Biblioteca Nazionale di Napoli.
Il giovanissimo Rossini, fin dai primi giorni del suo arrivo ospite gradito e conteso nei salotti colti della capitale del Regno delle due Sicilie, era rimasto ammirato dalla grande orchestra del Massimo napoletano e letteralmente soggiogato dalla compagnia artistica dei cantanti messa insieme da Barbaja, prima fra tutti, Isabella Colbran. Quello che allora si rappresentava sulle scene del San Carlo era all’avanguardia in Europa. Dopo l’incredibile successo di Elisabetta, il compositore si cimentò con la vicenda a tinte fosche di Otello, l’esito andò al di là delle previsioni più lusinghiere. Allora, nell’ansia di variare tematiche, le scelte del Rossini napoletano passarono attraverso Shakespeare, per approdare prima al Tasso con l’iperbole belcantista di Armida, e quindi al testo biblico con il dramma corale Mosé in Egitto, ovvero un oratorio, genere che Rossini riteneva indispensabile nel curriculum di un compositore che aspirasse alla posterità. Rossini accettò, a questo punto, una nuova proposta di Berio che lo trasportò, questa volta con Ricciardo e Zoraide, nelle acque più tranquille del poema cavalleresco di Niccolò Forteguerri.
Andrea Leone Tottola, intorno alla cui persona aleggiava un’aura poco beneaugurante, fu autore di testi poetici che funzionarono a meraviglia per il teatro serio di Rossini. Furono suoi i libretti di Mosé in Egitto, della Donna del lago, di Zelmira e di quella che fu l’unica opera rossiniana andata in scena e mai più replicata nell’Ottocento. Dopo la prima al San Carlo del 27 marzo 1819, Ermione dovette attendere infatti il 1977 per essere riproposta in forma di concerto, nella chiesa della Santissima Annunziata a Siena.
Nella trasposizione librettistica di Leone Tottola, il dramma dell’incomunicabilità dell’Andromaque di Racine, vedrà capovolta la prospettiva di osservazione per fare di Ermione la protagonista dalle passioni senza speranza. Il ruolo fu assegnato alla “primadonna assoluta dei reali teatri”, Isabella Colbran.
«Sto abbastantemente avanzato colla mia Ermione. Temo che il soggetto sia troppo tragico, ma poco me ne importa ormai posso dire che è fatto il becco all’Oca», scrive il compositore alla madre non celando perplessità unitamente ad un’intima soddisfazione. Perplessità non infondate dal momento che neanche il pubblico napoletano, a dire di Rossini “il più dotto di Italia” sarà in grado di recepire il messaggio di modernità affidato alla sua opera.
Ma in terzo grado di giudizio, per così dire, dopo la ripresa del 1988 che impegnò nel ruolo del titolo il soprano Montserrat Caballé, sabato 9 novembre alle ore 19 la sala gremitissima ed entusiasta del teatro per cui era stata composta, ha tributato a quest’opera il meritato plauso. Lo spettacolo è stato trasmesso in streaming su Operavision.
Ed in effetti, «La vicenda nasce da presupposti tanto tragici da escludere a priori la possibilità di qualsiasi evoluzione benigna: una spirale di sciagure e un intrico di passioni dalle quali è impossibile riscattarsi». (Sergio Ragni)
Sul podio Alessandro De Marchi ha fatto fronte egregiamente alla responsabilità di un’opera seria tra le più innovative di Rossini, responsabilità doppia, insieme un unicum e un anniversario del bicentenario della prima assoluta. Così il direttore: «Un’opera innovatrice ma anche legata ancora alla grande tradizione settecentesca, per le forme, la strumentazione, la scelta delle modulazioni». Già la sinfonia si presenta, infatti, con caratteri di eccezionalità. Inattesi interventi corali ne interrompono subito, solo dopo poche battute l’andamento maestoso: i prigionieri troiani lamentano la distruzione della città e la gloria irrimediabilmente perduta.
E ancora: «Ermione è un’opera certamente difficile non solo per la continua tensione drammatica ma anche soprattutto per la continuità tra i numeri e i recitativi che non si alternano in maniera chiusa e cadenzale.
Il momento più lirico dell’opera “Un’empia mel rapì” ho voluto fosse eseguito dal solo quartetto d’archi nel tentativo di renderlo ancora più intimo».
Il regista Jacopo Spirei così ci prospetta le scelte del suo allestimento: «Ermione è un’opera di pancia, scritta per appagare una personale esigenza espressiva, l’autore non l’ha rimodulata sui canoni della nuova moda francese diversamente da quanto farà con altri suoi lavori.
L’opera si sforza di mettere a nudo le ragioni del personaggio negativo, con una consapevolezza che sfugge alle convenzioni del teatro dell’epoca e apre nuovi spazi stimolanti di indagine psicologica.
Ermione, come la vedremo al San Carlo, è ambientato in un ‘900 ipotetico, in un palazzo concepito secondo logiche di spazio impercettibili, un labirinto chiuso nel quale i personaggi si muovono come cavie di un esperimento dagli esiti purtroppo inevitabili».
Nei panni della protagonista il soprano americano Angela Meade, voce “verdiana”, ha padroneggiato la scena con sicurezza e grande carisma, sfoggiando un registro acutissimo e drammatico al tempo stesso.
Il secondo atto, dopo un duetto tra Andromaca e Pirro, è tutto concepito da Rossini come un’unica grande scena, “la scena di Ermione”, tragica e possente, articolata in un’impegnativa serie di recitativi e squarci melodici, bruscamente interrotti o sospesi: meditazioni introspettive che isolano sempre di più Ermione e le precludono qualsiasi possibilità di comunicazione. La scrittura vocale difficilissima assume il significato espressionistico del disagio della protagonista. In Ermione Rossini trasforma il virtuosismo canoro in un’estrema risorsa espressiva. Le volate e gli slanci verso la zona più alta del pentagramma restano irrisolti e senza conclusione logica negli acuti di forza e vicini al grido. «Un belcantismo che deliberatamente cerca di infrangere le sue stesse leggi». (Sergio Ragni)
Teresa Jervolino ha dato voce dal colore bruno e ottimamente impostata alla nobile Andromaca, che si giustappone per moralità e contegno alla protagonista preda di una folle gelosia. La prima scena dipinge alla perfezione il carattere di dolore sommo che avvolge la figura dell’eroina troiana, che canta la sua struggente melodiosissima cavatina “Mia delizia! Un solo istante“. L’abbandono lirico consolatorio dura poco per trasformarsi in una cabaletta ansiosa. Col distacco dal figlio il canto della madre si frammenta. È il momento più significativo che Rossini riserba al personaggio protagonista della tragedia di Racine.
Interessante è sicuramente il tipo vocale dei due tenori: Pirro e Oreste, due tipologie emblematiche della vocalità rossiniana, il bari-tenore, ruolo di note gravi, forti e potenti e il cosiddetto contraltino, che ha grande facilità di registro acuto.
John Irvin ha raccolto qualche isolata disapprovazione alla sua uscita per i saluti, il tenore nei panni del capriccioso sovrano dell’Epiro, vanta delle discrete risorse tecniche ma volumi non adeguati al carisma e alla prestanza del suo personaggio, soprattutto quando giustapposto alla primadonna che vocalmente pareva fagocitarlo…
L’Oreste di Antonino Siragusa non ha esordito benissimo, qualche iniziale problema di intonazione e gli acuti spinti un po’ a forza, ma già dopo poco l’interprete si è rilassato e rimesso in assetto, offrendo una performance adeguata e convincente. Il livello della produzione è stato sostenuto dagli ottimi comprimari: Pilade/ Filippo Adami, Fenicio/Guido Loconsolo, Cleone/Gaia Petrone, Cefisa/Chiara Tirotta, Attalo/Cristiano Olivieri, Astianatte/ Lorenzo Mattia Moreschi.
Efficace l’orchestra sotto la bacchetta di Alessandro De Marchi.
Ottimamente preparato da Gea Garatti Ansini il coro che ha fatto presto il suo ingresso. Le Scene di Nikolaus Webern, i costumi di Giusi Giustino e le luci di Giuseppe di Iorio sono stati pensati insieme e contemporaneamente all’idea registica in quanto funzionali ad un progetto teatrale complessivo che va nella direzione di privilegiare l’attualità forse un po’ troppo a discapito della tensione drammatica.

Mariapaola Meo

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